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3/10

La verità sta in cielo regia di Roberto Faenza

Thriller
recensione di Irene Coluccia

 

Il caso insoluto della scomparsa della quindicenne Emanuela Orlandi torna alla ribalta con le vicende di Mafia Capitale, portando una giovane giornalista inglese a Roma,  pronta a fronteggiarsi con l’omertà del Vaticano e del potere centrale.

 

Il film parte da una tesi e da un’accusa precisa: la mitizzazione per mano di cinema e media della Banda della Magliana, ha fatto si che molti reati centrali della storia italiana venissero erroneamente imputati al gruppo malavitoso di Roma Sud, uno su tutti quello della sparizione della giovanissima Emanuela Orlandi, figlia di un messo papale scomparsa dal centro della Capitale nel 1983. Roberto Faenza (Sostiene Pereira, Prendimi l’Anima, I Vicerè) si autodefinisce appassionato di “cold case”, casi insoluti profondamente scomodi per il potere vigente e l’opinione pubblica. Sin dai primi momenti di film, questa concezione di voler mettere in scena materiale altamente pericoloso è percepibile, purtroppo, come una sorta di spirito tronfio. Il film SA e SA cosa sta mettendo in scena; le motivazioni, innanzitutto. Se in un film, come sono stati I cento passi  (Marco Tullio Giordana, 2000) o l’ottimo Fortapàsc (Marco Risi, 2009), l’energia denunciante la morte di Peppino Impastato e Giancarlo Siani è palpabile e cristallina, un film come La verità sta in cielo può essere descritto solo dai dialoghi, a mio parere imbarazzanti, tra gli astanti del gioco filmico.

Il film si struttura su tre livelli narrativi, effettivamente ben gestiti: il passato remoto degli anni Ottanta, caratterizzato dalla presenza di Enrico De Pedis, detto Renatino (interpretato da un Riccardo Scamarcio sopra la media), il passato prossimo a cavallo tra gli anni Novanta e i primi Duemila, con la giornalista Raffealla Notariale (Valentina Lodovini) intenta a intervistare Sabrina Minardi (Greta Scarano), amante e  complice di De Pedis, e il presente, con la giornalista inglese di origine italiane Maria (Maya Sansa), inviata a Roma per indagare circa il collegamento tra lo scandalo Mafia Capitale e il rapimento della Orlandi. Questo punto di fusione, questo primo espediente narrativo collegante passato e presente risulta essere la prima forzatura del film; inoltre, il punto di vista esterno della giornalista italiana di nascita, ma britannica di adozione, conferisce alla vicenda un punto di fuga percepibile, oltre che al solito cliché degli “italiani brava gente”.

Nonostante, quindi, la narrazione proceda correttamente e in maniera fluida, vi sono dei bug, delle dimenticanze, degli elementi di sciatteria che vanno dagli elementi etici (“Io so ma non ho le prove”) a quelli, ancor peggio, filmici (la struttura dei dialoghi, l’empatia tra personaggi, la credibilità di taluni meccanismi, quali il falso Padre Albert che inganna Maria). Ma l’elemento più fastidioso, ancora una volta, risulta essere la spinta, lo spirito che riveste l’opera. Non vi è denuncia, non vi è necessità, e, andando contro le sue stesse parole, Faenza predilige la piattezza al clamore.

Stilisticamente il film presenta note di merito, quali la sequenza del sogno di Maria (nome biblico che rimanda all’onirico e alla predestinazione), con il vortice che la collega alla sua ossessione, Renatino De Pedis, in un omaggio alla vertigine hitchcockiana e all’assemblage dell’ultima opera, rimasta incompiuta, di Pier Paolo Pasolini, Petrolio. Il ritratto impietoso dell’Italia non ci sorprende, ma la piattezza e la poca accuratezza alla parola pronunciata lasciano lo spettatore annoiato e poco incentivato a saperne di più. “Io so ma non ho le prove” diceva Pasolini, Roberto Faenza ci dimostra che strutturare un film in base alle prove certe e anche attente raccolte, non sempre costituisce una ragione di fattibilità.

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ANTONIO59 (ha votato 10 questo film) alle 10:40 del 6 ottobre 2016 ha scritto:

Brava!