V Video

R Recensione

7/10

Demolition regia di Jean-Marc Vallée

Drammatico
recensione di Irene Coluccia

 

la vita del cinico e apatico finanziere Davis C. Mitchell (Jake Gyllenhaal) viene sconvolta dall’improvvisa morte della moglie Julia (Heather Lind) durante un incidente d’auto dal quale lui esce miracolosamente illeso. Nonostante il padre di lei (Chris Cooper) cerchi di spronarlo a reagire al lutto, Davis diventa sempre più depresso e folle, smontando e distruggendo oggetti, fino a farsi cacciare dal luogo di lavoro, gestito proprio dal suocero. Per sfogarsi, inizierà a scrivere lettere di reclamo a un’azienda di distributori automatici, incrociando la sua vita con quella di Karen (Naomi Watts) e del figlio ribelle di lei, Chris (Judah Lewis).

 

Per recensire il nono lungometraggio del regista canadese Jean-Marc Vallée (C.R.A.Z.Y., Dallas Buyers Club, Wild) desidero partire dai motivi per il quale in America è stato classificato come V.M. 17: "sessualità, linguaggio scurrile, uso di droghe e comportamenti inquietanti". Tralasciando i primi tre punti e glissando coscientemente su cosa sia più  meno accettabile nel visuale della contemporaneità americana (tenterò di scrivere un articolo a proposito, fortunati voi), l’elemento di disturbo del film è tangibile e fa, a mio parere, parte di quella lista di princìpi per la quale il cinema resterà sempre un’Arte sinestetica.

Il profondo disagio, il disturbante, la scomodità percettiva, psicologica, visuale della prima parte del film, è concreta, e si gioca su più piani.

Innanzitutto, il ruolo dei personaggi, e in particolare del protagonista: Jake Gyllenhaal, uno dei migliori performer della sua generazione (Nightcrawler, End of Watch, Southpaw), qui nei panni di un uomo ai confini dell’apatia e della passività. Davis si è lasciato scivolare tutta la vita addosso: un buon lavoro, un matrimonio “perché era facile”, una casa “che odia”. Un personaggio che spinge lo spettatore a domandarsi cosa sarebbe successo se un lutto così violento non gli avesse sconquassato la vita: probabilmente ad un altro “American Psyco”.

Gli altri personaggi del film vengono introdotti esclusivamente dal folle sguardo di Davis: Karen, Phil, sua moglie Margot (Polly Draper) sono solo maschere che non riusciamo a capire, tantomeno a conoscere fino in fondo. Per stessa ammissione del protagonista, lui in primis non conosceva affatto la sua giovane moglie, descritta come “una brava ragazza, lavorava con i bambini disabili, rideva rumorosamente e piangeva sempre quando vedeva le immagini delle Torri Gemelle”, descritta solo da brevissimi flashback, ricordi dolorosi come proiettili nella mente di Davis, salvo poi scontrarsi con l’immagine finale di Julia, una donna complessa, infelice e infedele. Anche la portata, la modalità tramite cui la Storia contemporanea entra nella storia filmica di Demolition risulta essere disturbante e, secondo me, vaga ma senza essere volutamente celata: l’attacco alle Torri Gemelle, ad esempio, viene preso e buttato lì, banalizzato, inteso come una sciocca ragione di commozione in una donna semplice. Allo stesso modo, la problematica omofoba che tocca il giovane Chris viene estremamente banalizzata in un dialogo velatamente comico-demenziale (“Sei giovane, è normale essere curiosi” “A volte mi immagino il suo cazzo in bocca” “Ah, questo è diverso”). Chiariamo, non intendo dire che tutti questi elementi sociali e storici debbano essere sempre affrontati in maniera melodrammatica; possono serenamente essere fronteggiati tramite la comicità o la leggerezza: diverso è il caso se non sono affrontati affatto.

Questo ci permette di introdurre il terzo elemento disturbante di Demolition: il montaggio. Vallée nasce come montatore, e uno dei suoi film più celebrati, Dallas Buyer Club vince tre Oscar, tra i quali proprio Miglior Montaggio. Personalmente, non trovo lo stile di assemblage di Vallée così innovativo: in Demolition, tuttavia, il montaggio della seconda parte merita un plauso: Davis, lentamente, riesce ad entrare in contatto con i suoi sentimenti e le sue verità (“Penso di non aver mai amato mia moglie”), con le sue negazioni, ad esempio il fatto che non voglia firmare per creare una borsa di studio in onore della moglie, e il montaggio, stavolta meno convulso e “spettacolare” rispetto al primo atto e rispetto ad altri film del regista (la struttura a flashback di Wild) comporta nello spettatore una sincera emozione. In maniera analoga proprio al penultimo film del regista, però, questa necessità di “carburare” il ritmo degli eventi sfocia in una prima buona metà di film tendenzialmente noiosa.

Anche se non in modo memorabile, il secondo atto di Demolition risolleva decisamente il tutto: Davis inizia a fronteggiare il suo alter-ego in una contrapposizione che si espande per tutti i minuti restanti del film. Lui stesso ci informa che “tutto è una metafora”: Davis diviene così il corpo delle sue stesse demolizioni, perché solo dalla decostruzione di una vita, di un amore, di una casa, la verità tanto desiderata può essere disseppellita, tornando a risplendere alla luce del sole. Questo è un tratto ricorrente negli ultimi film del cineasta canadese: la dualità tra l’ordine e la demolizione, tra silenzi e dialoghi (ahimè, talvolta eccessivamente deboli), conduce lo spettatore al finale di liberazione dal demone non tanto della depressione, quanto della “non-verità”, dell’autogiustificazione.

Demolition è, infine, un buddy movie con un amico al femminile (una Naomi Watts non particolarmente in forma, purtroppo), che lascia però allo spettatore un messaggio ben chiaro: la gioia non è uno stato conclusivo dell’essere umano, ma è una luce che filtra dalle crepe della nostra esperienza. Le stesse crepe che Davis apre nei muri che lo separano da qualcosa di molto simile alla felicità.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

ANTONIO59 alle 10:56 del 6 ottobre 2016 ha scritto:

I miei complimenti.....