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R Recensione

7/10

La verità negata regia di Mick Jackson

Drammatico
recensione di Irene Coluccia

 

Dopo il grande successo del suo libro contro l’apologia dell’Olocausto ebraico, la professoressa americana Deborah Lipstadt viene citata in giudizio da David Irving, prolifico autore di testi sulla seconda guerra mondiale e studioso di Adolf Hitler. Per dimostrare la propria innocenza, la studiosa dovrà dimostrare alla corte come la Shoah non sia un’invenzione, intraprendendo un viaggio fisico e etico attraverso l’Oceano e attraverso sé stessa.

Basato sul best-seller della stessa Deborah E. Lipstadt, l’ultimo film di Mick Jackson (The Bodyguard, L.A. Story) porta sul grande schermo l’avventura legale intrapresa da David Irving contro la professoressa americana.  Se dal punto di vista formale il film risulta abbastanza classicheggiante e con scarsa tendenza sperimentalista, vi sono altri aspetti ben più interessanti ma anche più problematici: innanzitutto, la sceneggiatura. Adattata dal candidato al premio Oscar per The Reader, David Hare, la struttura di Denial procede per grandi salti, i quali permettono allo spettatore di ottenere un’idea abbastanza precisa circa le frasi del processo, ma che, al contempo, rendono la narrazione leggermente anestetizzante e, a dirla tutta, un pochino deludente, soprattutto da un’aspettativa come quella creata dallo sceneggiatore dell’ottimo The Reader, racconto crudele del tempo passato che svela dolori e menzogne di una donna SS.

La forma filmica è, in questo caso, estremamente elegante certo, ma non riesce a scavallare la struttura della semplice narrazione di un caso processuale, nonostante l’inserimento di una serie di questioni che vorrei sintetizzare, citando il personaggio di Tom Wilkinson, l’avvocato Rampton, come “il buco oscuro della verità”. Sappiamo tutti che l’Olocausto è esistito, è avvenuto. Ma, come ci ricorda la stessa Rachel Weisz, “quali sono le prove concrete?”.  Il negazionismo verso la Shoah è uno dei casi negazionisti più evidenti e controbattuti: i sostenitori più noti mediaticamente sono lo scrittore inglese David Irving e l’ex professore della cattedra di critica letteraria dell’Università di Lione, Robert Faurisson. Irving in particolare sostenne che le camere a gas nei lager nazisti non sarebbero mai esistite, e che i forni erano utilizzati unicamente per disinfettare le divise dei prigionieri o i corpi dei caduti sul lavoro. Cosa possiamo utilizzare, dunque, per sostenere che l’esistenza dell’Olocausto ebreo, soprattutto davanti a un soggetto che, posto davanti a foto raffiguranti cumuli di cadaveri fuori dai forni crematori, replicò che si trattava di fotografie scattate a Dresda dopo i bombardamenti delle truppe alleate. Questo aspetto lancia un’ombra inquietante sul ruolo dell’immagine in quanto portatrice di verità. Per esempio: un mucchio di cadaveri emaciati significa necessariamente che si tratta di persone che sono state uccise dal gas o lasciate morire di fame? O significa, invece, che sono state vittime di una epidemia di tifo, o che sono morte per mancanza di cibo nei lager verso la fine della guerra? Il film prosegue, conducendo Deborah attraverso una muta battaglia (la donna non parla mai nel corso del processo) verso la verità e verso rispetto per le proprie origini e per i sopravvissuti, interdetti anche loro dalla testimonianza diretta in tribunale, perché “non ricordano esattamente”. Possibile che nemmeno una testimonianza sofferta e diretta come quella di un sopravvissuto a Auschwitz possa condurci alla rivendicazione della Verità? Il film, come detto, non presenta particolari elementi di sperimentazione, se non per una zoomata digitale in avanti, attraverso la ricostruzione del momento dell’accensione di una camera a gas: l’occhio digitale della camera penetra attraverso la famosa griglia impugnata da Irving per dimostrare che le camere a gas servivano solo a scopi igienici, mostrando l’orrore e il terrore dei prigionieri urlanti, diventando un simbolo di morte e verità. Cosa spinge Irving a mentire? Quanto spazio necessita la libertà di pensiero di un uomo che si autodefinisce storico per scrivere libri su Hitler e, al contempo, interviene durante le manifestazione delle forze neo naziste tedesche; ancora una volta, le parole di Rampton ci indicano la via, personaggio dal sapore virgiliano, che ci conduce attraverso i dilemmi etici della faccenda: “Abilità e bramosia”, bramosia di aver ragione, di affermare idee contrare alla corrente per il semplice fatto che violentano la struttura stessa della Storia.

Libertà di pensiero, parola, stampa, procedono per eliminazione, fino a condurci alla risposta: talune volte, per far risuonare chiara la propria voce nel caos della menzogna, è necessario rimanere in silenzio; non si tratta, ovviamente di un silenzio derivante dall’omertà o dalla codardia, bensì dall’abnegazione che conduce la faccenda di Deborah “Devora” (liberatrice, conduttrice del popolo), alla Rivoluzione.

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