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8/10

Il diritto di Contare regia di Theodore Melfi

Biografico
recensione di Leda Mariani

Il film è tratto dal romanzo “Hidden Figures” (Figure Nascoste), scritto da Margot Lee Shetterly, ed edito quest’anno da HarperCollins Publishers. Il un gioco di parole il titolo intende esprimere un dualismo concettuale per cui se da un lato le “figures” rappresentano le donne che hanno combattuto per uscire dall’oblio che veniva loro imposto a causa del sesso e del colore della pelle, dall’altro indicano i numeri matematici che stanno dietro a tutte le loro brillanti scoperte. Il titolo italiano del film, “Il Diritto di Contare”, gioca a sua volta con il doppio significato del verbo, inteso come diritto di “farsi valere”, oltre che di destreggiarsi tra calcoli e cifre, senza discriminazioni.

Il diritto di Contare svela l’incredibile storia, vera e sconosciuta, di un gruppo di brillanti donne che puntando letteralmente alle stelle hanno cambiato in meglio le fondamenta del loro paese: un team di matematiche afro-americane della NASA che hanno contribuito alla vittoria americana nella corsa allo spazio contro i rivali dell’Unione Sovietica e che al tempo stesso hanno dato una vigorosa accelerata al riconoscimento della parità di diritti ed opportunità.

Tutti conoscono le missioni del Programma Apollo. Molti sanno i nomi dei coraggiosi astronauti che hanno compiuto quei primi passi nello spazio: John Glenn, Alan Shepard e Neil Armstrong. Tuttavia, e sorprendentemente, i nomi di Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson non vengono insegnati a scuola, né sono noti alla maggior parte delle persone, sebbene la loro energia ed audacia, unite al ruolo fondamentale di ingegnosi “computer umani”, siano stati indispensabili alla NASA per realizzare i progressi che hanno reso possibile il volo dell’uomo nello spazio, calcolandone le traiettorie e molto altro. mostra spoiler

Il Langley Memorial Research Lab di Hampton (Virginia), gestito dal National Advisory Committee on Aeronautics, o NACA, ente precursore della NASA, era infatti in cerca di menti brillanti con una formazione e un percorso non convenzionali. Aveva bisogno di persone particolarmente dotate che fungessero da “computer umani”- quelle rare la cui materia grigia è in grado di compiere mentalmente e in rapida successione calcoli molto complessi - in un’epoca in cui non esistevano i super elaboratori digitali capaci di tracciare con precisione la traiettoria dei razzi e il tracciato per il rientro sulla Terra. La posta in gioco era altissima per tutti gli americani. Nel 1958 l’Unione Sovietica aveva lanciato con successo il satellite pionieristico Sputnik, attestandosi in una posizione di vantaggio nella Guerra Fredda sempre più accesa tra i due paesi. Questo evento aveva catapultato la corsa allo spazio al primo posto tra le priorità e le preoccupazioni degli Stati Uniti. Milioni di persone assistevano alla sfida, sperando che l’America riuscisse a battere i russi nei voli orbitali per poi arrivare alla conquista della Luna. In un’epoca in cui era massima la paura di una guerra nucleare con il conseguente annientamento della civiltà, la corsa allo spazio divenne una strada alternativa di competizione senza regole e senza limiti tra URSS e USA.

L’inevitabile importanza della Storia

Finalmente la storia di queste tre donne competenti e visionarie, che hanno superato le barriere professionali, razziali e di genere per contribuire in prima persona ai pionieristici viaggi nel cosmo, arriva sul grande schermo grazie alla candidata all’Oscar Taraji P. Henson (“Empire”, “Il curioso caso di Benjamin Button”, “Hustle & Flow”), alla vincitrice dell’Academy Award Octavia Spencer (“The Divergent Series: Allegiant”, “Prossima fermata Fruitvale Station”, “The Help”), alla cantante Janelle Monáe al suo esordio cinematografico, e al due volte vincitore dell’Oscar Kevin Costner (“Black Or White”, “L’uomo dei sogni”, “Balla coi lupi”).

Un film che funziona molto bene per ciò che intende raccontarci. Lineare, piacevole, divertente e leggero, ma comunque in grado di non farci distogliere l’attenzione dall’importanza delle vicende vissute dalle protagoniste. La fotografia di Mandy Walker è patinata e curata, così come tutta la ricostruzione storico-estetica, tra scenografie e costumi, e ci riporta agli anni Sessanta in quella maniera molto americana che ci consente di decodificare da subito, e in maniera facile, il film. Insomma una piccola grande pellicola: semplice, lineare, non sorprendente nella forma, ma importantissima a livello di contenuto e con un cast fenomenale, composto da attori uno più bravo e famoso dell’altro, ovviamente Parsons e Dunst compresi (ma peccato per il doppiaggio di Parsons, che ne altera troppo la performance).

Il regista Theodore Melfi, autore anche del divertentissimo e fuori dagli schemi “St. Vincent”, ha restituito la dignità della luce alla storia dell’ascesa di queste tre donne ai vertici del programma aerospaziale della NASA in un film veloce e brillante che da un lato fa luce sulla coraggiosa ambizione verso un obiettivo che sembrava apparentemente impossibile, vale a dire il volo orbitale intorno alla Terra, e dall’altro mette in evidenza gli straordinari risultati che possono nascere dall’unione fra donne, ma soprattutto fra esseri umani in generale.

Il film è ambientato in un’epoca che ha segnato un punto di svolta nelle più accese battaglie della storia americana: il progresso nella lotta per i diritti civili ai tempi dell’apartheid, il predominio nella Guerra Fredda senza arrivare al conflitto nucleare, il successo come prima superpotenza nel portare l’uomo al di fuori del pianeta, la dimostrazione che né la posizione sociale, né il genere, incidono sulle straordinarie scoperte tecnologiche che hanno aperto la strada al futuro. Insomma una "bomba", un nucleo di argomenti talmente accesi e gravi, che probabilmente si è dovuto scegliere tra la via dell’approfondimento documentaristico e qualcosa di più essenziale, che alla fine ha portato a questa pellicola patinata, lieve, e davvero molto musicale, ma sicuramente funzionale.

Katherine G. Johnson, ormai ultranovantenne e presente sul palco alla consegna degli Oscar di quest’anno, tra gli applausi di una folla commossa e colpita, si è definita sorpresa per la crescente attrazione per le attività svolte da lei e dalle sue colleghe, che dal suo punto di vista (di donna intelligente e modesta), fecero solo del loro meglio per il lavoro, per la famiglia e per la comunità, come avrebbe fatto chiunque altro. Preziosissimo il consiglio che ha rilasciato durante alcune interviste alle persone che devono affrontare le sfide del mondo attuale: “Attenetevi al problema. Qualunque esso sia, c’è sempre una soluzione. Una donna può risolverlo e anche un uomo può farlo… se gli concedete più tempo”.

Se non fosse che la storia è semplicemente vera, questo sarebbe stato uno di quei film che avremmo potuto definire come “poco credibili”, tanto è assurdo il fatto che queste donne siano riuscite a fare così tanto e a cambiare il destino del mondo tutte assieme, in poco tempo, e semplicemente facendo il loro lavoro nel difficilissimo stato di aver contro tutto e tutti: stato, famiglia, tempi, cultura, ed economia. Quella era un’epoca in cui le opportunità potevano apparire ingiustamente limitate, in particolar modo se eri donna, di razza afro-americana e, più che mai, se ti trovavi nell’insieme di queste due situazioni. Ma queste donne straordinariamente in gamba sfidarono senza tante cerimonie le limitazioni e i divieti esistenti, ridefinendo completamente l’idea di ciò che era possibile e di chi era fondamentale per la nazione, dimostrando di essere essenziali per il futuro dell’America.

Katherine G. Johnson, nata nel West Virginia, si dimostrò da subito un fenomeno, iniziando le scuole superiori a 10 anni e laureandosi in Matematica e Francese a 18. Fu una delle prime a frequentare la West Virginia University e fu chiamata a lavorare a Langley nel 1953. Era una madre single di tre figli.

Dorothy Vaughan, originaria del Missouri e laureatasi a 19 anni, prima di andare a Langley nel 1943 aveva lavorato come insegnante di matematica. Divenne rapidamente responsabile del gruppo West Computing.

Mary Jackson, di Hampton (Virginia), laureata in Fisica e Matematica, entrò a Langley nel 1951 con il ruolo di Ingegnere aerospaziale, specializzata in esperimenti nella galleria del vento e in dati sui velivoli aerospaziali. Si avvalse sempre della sua posizione per aiutare le altre.

Una storia del genere non può che farci pensare a quanto ci lamentiamo dell’impossibilità di realizzazione dei nostri fantomatici sogni nel presente, quando al mondo ci sono sempre state persone che anziché piangersi addosso hanno semplicemente “fatto”. Che sono andate avanti con forza e coraggio, giorno per giorno, investendo le loro energie e concentrandosi su ciò che ritenevano più importante, ed interessante.

L’autrice del libro e produttore esecutivo Margot Lee Shetterly, il cui padre lavorava alla NASA, è rimasta sbalordita dal fatto che questi personaggi siano rimasti così a lungo relativamente sconosciuti. L’autrice ha scritto il romanzo traendo spunto da alcune interviste e da approfondite ricerche d’archivio. Seguendo gli eventi, il libro illustra come le donne della West Computing affrontarono le sfide con grazia ed ottimismo, creando collaborazioni ed alleanze che fecero guadagnare loro il rispetto dei colleghi, ed aiutandosi a vicenda per cambiare le proprie vite man mano che trasformavano per sempre la tecnologia e il paese.

Quasi nessuna delle persone interpellate per la stesura del libro aveva la benché minima idea dell’esistenza di un gruppo di geni della matematica di sesso femminile alla NASA, ed il fatto che pochissimi conoscano questa storia resta semplicemente sconvolgente. Ci sono volute diverse generazioni ( e nel 1900…) perché Katherine, Dorothy e Mary ottenessero il meritato riconoscimento pubblico, dopo essere state sepolte nel dimenticatoio perfino dagli addetti ai lavori.

Theodore Melfi è stato felice che Pharrell Williams, vincitore di dieci Grammy Award, abbia accettato di prendere parte al film non solo nel ruolo di produttore, ma anche come forza creativa, collaborando con il leggendario Hans Zimmer alla realizzazione della colonna sonora e scrivendo diversi brani originali. “Quando abbiamo iniziato a parlare della musica, sono rimasto colpito da Pharrell e dalla sua passione per il tema del film”, ha dichiarato Melfi. Williams è sempre stato un estimatore della musica degli anni ‘60. “Appena l’ho incontrato, mi ha detto di avere molte idee”, ricorda Melfi.“Ha continuato a mandarmi demo e ogni volta restavo senza parole. Penso che la sua musica rappresenti il battito cardiaco del film”.

E lo crediamo anche noi, perché il ritmo musicale, tra Jazz, Swing e Blues, fa da collante dall’inizio alla fine, scandendo la drammaturgia della storia e i sentimenti che di volta in volta come spettatori siamo chiamati a condividere con i personaggi.

Melfi in recenti interviste ha concluso: “Ciò che ci ha uniti è stato raccontare la storia di un gruppo di persone della NASA - bianchi, neri, uomini, donne - che si sono aggregate per raggiungere un grande obiettivo, accantonando tutte le differenze esistenti tra di loro. È stato difficile? Sì. È stato causa di disagio? Sì. C’è voluto del tempo? Sì. Ma le grandi cose accadono quando le persone si uniscono e collaborano in condizioni di parità”.

Indiscutibile il fatto che anche e soprattutto di questi tempi, questo sia un messaggio di fondamentale importanza. Film particolarmente consigliato, da donna a donna.

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