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8/10

Chi-Raq regia di Spike Lee

Commedia
recensione di Enrico Cehovin

In una Chicago dove regna soltanto la violenza e la lotta tra bande Lysistrata (Teyonah Parris), donna del capo di una delle fazioni, cerca di porre fine alle ostilità mettendo in atto uno sciopero del sesso esteso a tutte le donne coinvolte nel conflitto.

Dal 2001 a oggi sono morti 2349 americani nella guerra in Afghanistan, 4424 dal 2003 al 2011 nella guerra in Iraq; durante gli stessi anni nella città di Chicago ci sono stati 7356 omicidi, principalmente per armi da fuoco, quasi tutti commessi da giovani maschi neri nei confronti di altri giovani maschi neri.

È con questi dati che si apre il nuovo film di Spike Lee, dati che ci immergono fin da subito nella realtà in cui il regista ci vuole catapultare, un parallelismo esplicitato da subito, già nel titolo, Chi-Raq, che collega, gemella, paragona Chicago e l'Iraq, unendole nella violenza, sovrapponendo due guerre, una dichiarata l'altra no, dove la sotterranea e non “ufficiale” è forse più sanguinaria di quella “reale”. Ma forse il parallelismo che vuole far intendere Spike Lee è ancora più sottile e accusatorio, ovvero che il modello democratico firmato USA che si vuole esportare, o meglio, imporre, in Iraq, è già stato imposto ed è già radicato a Chicago stessa, negli stessi USA, nella violenza, nella proliferazione delle armi da fuoco, nel non rispetto per la vita, nemmeno quella dei bambini.

Laddove in Fa' la cosa giusta il problema che portava all'aumento della temperatura e all'esplosione era la difficoltà o impossibilità nella compenetrazione fra le diverse etnie che popolano e coesistono a New York, in Chi-Raq, un quarto di secolo dopo, il problema è tutto della comunità nera, vittima e carnefice di se stessa. Esattamente come, più di 2000 anni fa, la civiltà ellenica era vittima e carnefice di se stessa e delle sue lotte intestine, come quella tra ateniesi e spartani portata in commedia da Aristofane nella “Lisistrata”. Ed è proprio Lysistrata il nome della protagonista di Chi-Raq, ed è proprio quello di “Lisistrata” il soggetto di Chi-Raq. Perché per Spike Lee il parallelismo è (almeno) doppio, e il tentativo di soluzione delle ostilità proposto da Aristofane è ancora valido e attuale perché, in fin dei conti, l'uomo non è ancora cambiato e ancora sullo stesso punto bisognerebbe fare leva. La proposta di Ly/isistra alle donne per porre fine alla guerra fra ateniesi e spartani, fazioni o gang che siano, è quella di uno sciopero del sesso: la negazione da parte di tutte le donne di entrambi gli schieramenti di qualsiasi forma di pratica sessuale fino a quando pace non sia fatta.

Ecco che allora Spike Lee imbastisce, dopo un una serie di insuccessi di critica e pubblico passati per Miracolo a Sant'Anna e Oldboy, un film che lo riporta sui temi a lui caro ma in una salsa nuova, perché della cupa drammaticità di La 25ª ora e Inside man c'è poco o nulla. Chi-Raq è un film costantemente sopra le righe, il quanto più possibile lontano dal realismo (per quanto riguarda la messa in scena, ovviamente) in cui i personaggi sono tanto stereotipi quanto realtà, dove ci si muove in coreografie come in un musical, dove, come nella commedia di Aristofane, non si parla in prosa ma in versi, ma versi adattati al tempo e al luogo di pertinenza, ovvero il rap.

È in questo ambiente così elaboratamente finto, così esteticamente distaccato dalla realtà, fatto di fazioni che si vestono solo di viola e arancione per far sapere sempre la loro affiliazione, che Spike Lee riesce a comunicare con efficacia, forza, senza patetismo o (eccessiva) retorica la realtà che vive e vuole raccontare, con la forza della commedia... e della tragedia. Perché la più grande tragedia che viviamo sullo schermo nelle due ore della durata del film è la tragedia di una madre che perde la figlia di soli sette anni perché colpita in mezzo alla strada da una pallottola vagante non destinata a lei, una pallottola che la ferisce per sbaglio ma le toglie ugualmente la vita. E la madre non può far altro che gridare, indignarsi e inveire contro i presenti, ma tutti sono presenti, perché tutta la comunità fa parte di quella realtà e di quell'omertà, contribuendo a formarle. E la tragedia viene esagerata e enfatizzata, perché così deve essere, perché tutto deve essere massimizzato affinché tutto venga giustificato e tutto ciò che è finto e fittizio diventi reale.

E forse è proprio nel sermone di John Cusack, più plastico (da intendere come “fatto di plastica”) che mai, che si concentra l'accusa vera e propria di Spike Lee, accusa che pronuncia con la veemenza di un prete durante una messa gospel, elemento talmente sopra le righe nella realtà da essere perfettamente reale e allo stesso tempo non stonare nel contesto costantemente esagerato del film, il momento in cui più di tutti realismo e finzione trovano contatto e permettono a Spike Lee di parlare, attraverso John Cusack, con puntuali riferimenti a vicende reali che per un attimo annullano completamente la distanza creata dalla messa in scena e portando immediatamente, anche se solo per un istante, la farsa a realtà tangibile, sia ai fedeli in chiesa, sia agli spettatori oltre lo schermo.

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