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8/10

Re della terra selvaggia regia di Benh Zeitlin

Drammatico
recensione di Pasquale D'Aiello & Fulvia Massimi

La seienne Hushpuppy (Quvenzhané Wallis) vive con il padre Wink (David Henry) in una comunità bayou della Louisiana chiamata Bathtub (‘vasca da bagno’) e separata dal mondo “civilizzato” da un muro di legno e acqua. Quando un uragano scuote l’equilibrio del suo microcosmo, distruggendone i punti fermi e liberando mostruose creature ancestrali, Hushpuppy si prepara ad imbarcarsi in una piccola ma sorprendente odissea pur di salvarlo.

Pasquale D'Aiello (voto 7):

 

Gli scenari su cui si muove la storia sono quelli apocalittici di una grande alluvione che minaccia un'intera comunità che è rimasta a vivere oltre la diga che separa le città sicure dalla palude accanto al mare. Il richiamo all'uragano Katrina e ai territori minacciati dalle alluvioni è evidente e costituisce un sottotesto ben leggibile. Tuttavia, l'intento principale del storia non è quello di lanciare un monito contro le pratiche inquinanti che causano i cambiamenti ambientali. Il tema centrale è il concetto della perdita declinata sia in chiave collettiva che individuale. La giovane protagonista,  Hushpuppy, deve affrontare la perdita dei genitori in un contesto in cui la sua terra e la sua comunità sono a rischio di scomparsa. Un'impresa immensa per una bambina così piccola che dovrà mostrare tutto il coraggio di cui è capace un piccolo essere umano. Ma  Hushpuppy è una bambina speciale, in grado anche di addomesticare alcuni mostri mitologici (Aurochs), simili ad enormi cinghiali, che si dirigono sul suo villaggio per distruggerlo. Nonostante le necessità scenografiche avrebbero richiesto un investimento economico da film colossal, un'intraprendente squadra di giovani cineasti è riuscita a portare a termine l'impresa con un budget da vero film indipendente.

D'altronde indipendenti lo sono per davvero, sebbene la realizzazione sia stata coadiuvata dalle strutture produttive del Sundance Film Festival di Robert Redford. E tutti gli sforzi sono stati ampiamente ripagati da una valanga di premi che è letteralmente piovuta su questo film, non ultime diverse nomination all'Oscar. Un successo davvero ragguardevole per una casa di produzione ed un giovanissimo regista alla loro prima esperienza di lungometraggio. Ma l'inesperienza non li ha certo indotti alla moderazione, non impedendo loro di accettare sfide temerarie, come la decisione di girare con attori non protagonisti e in luoghi impervi e isolati. Il loro intento era quello di tirar fuori una storia “vera”, in cui emergesse il coraggio della gente comune che riesce a compiere imprese straordinarie. E questo obiettivo è stato pienamente centrato. Per i cinefili sarà un piacere ritrovare alcune rivisitazioni di celebri film che hanno segnato l'immaginario collettivo cinematografico. La diga  che è stata costruita dalle autorità statali per impedire l'alluvione delle città separa il mondo civilizzato e sicuro da quello selvaggio e pericoloso in cui solo uomini di tempra selvaggia (il titolo originale non a caso è “Beasts of the southern wild”) riescono a sopravvivere e questo non può non richiamare alla mente 1997: fuga da New York (1981) di John Carpenter. Ma qui la prospettiva è nettamente rovesciata e l'umanità più profonda si trova fuori dal mondo “sicuro”.  Per esplicita ammissione del regista, c'è un chiaro riferimento anche a Underground (1995) di Kusturica, alla scena finale in cui si vede un pezzo di terra separarsi e viaggiare alla deriva. Suggestiva è l'assonanza anche con Princess Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki, che vede anche lì una bambina combattere contro la devastazione della terra e in ambedue ci sono dei mostri simili a cinghiali (anche se nel film giapponese sono “buoni”). Sono tutti riferimenti apocalittici che alludono a una sfida finale che la nostra civiltà e il nostro pianeta devono affrontare per la sopravvivenza. Il messaggio che viene lanciato è un messaggio di speranza, a patto che ognuno sappia ritrovare il coraggio animale e fanciullesco che riporta alla vita anche quando tutto sembra perduto.

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Fulvia Massimi (voto 9):

Dopo aver debuttato con strepitoso successo  al 28esimo Sundance Film Festival, dove ha stregato la giuria conquistandone il Grand Prize,  il folgorante esordio dell’americano Benh Zeitlin non arresta la propria corsa. Insignito con una vera e propria pioggia di riconoscimenti festivalieri – non ultimi la Camera d’oro e il FIPRESCI della critica a Cannes 2012 – Beasts of the Southern Wild, si preannuncia piccolo grande-caso anche agli imminenti Academy Awards, grazie alle quattro nomination ottenute a sorpresa (miglior film, regista, sceneggiatura non originale e attrice protagonista) in una cerimonia che di sorprese ne prometteva ben poche.

Cosa possa legare un trentenne newyorchese, nato a Manhattan e cresciuto nel Queens, alle sorti di un’inospitale comunità sprofondata nel Sud degli Stati Uniti e minacciata da un diluvio biblico risulta a prima vista incomprensibile. Ma se il trentenne in questione si chiama Zeitlin, figlio di due accademici folkloristi e autore di un cortometraggio (Glory at sea, 2008) che lo ha fatto letteralmente innamorare della Louisiana, il connubio è presto spiegato.

Alle origini di Beasts of the Southern Wild sarebbe infatti proprio la ricerca eziologica, e per certi versi etnologica, delle ragioni che convinsero Zeitlin a restare nelle zone devastate dall’uragano Katrina per celebrarne il coraggio. Conquistato dalla tenacia dei suoi abitanti e dalla loro strenua volontà di restare e ricostruire, il giovane film-maker li omaggia con una pellicola dalle atmosfere fantastiche, ispirata alla pièce della co-sceneggiatrice Lucy Alibar, Juicy and Delicious: un inno alla vita di portata universale, che ai toni drammatici ed inquietanti della disperazione affianca una rivisitazione delle fiabe illustrate da Maurice Sendak e portate sul grande schermo da Spike Jonze nel 2009.

A differenza di Max Records e del suo straordinario viaggio nel paese delle creature selvagge, però, quella di Hushpuppy è un’avventura che, per quanto surreale, affonda le proprie radici in un terreno morfologicamente instabile ma ontologicamente più solido della pura fantasia. La sceneggiatura scritta a quattro mani da Zeitlin e Alibar evolve sì in racconto fantastico, con tutte le soglie e gli archetipi del viaggio dell’eroe vogleriano, ma conserva alla base l’impostazione del docu-dramma, incentrato tanto sull’esplorazione di una realtà socio-culturale che rasenta lo stato di natura, quanto sulle dinamiche di una relazione padre-figlia decisamente atipica.

Quello tra la piccola Hushpuppy (l’eccezionale candidata all’Oscar Quvenzhané Wallis, cinque anni all’epoca delle riprese) e il padre Wink (David Henry, esordiente assoluto scovato in una panetteria di New Orleans dai membri della casa di produzione indipendente di Zeitlin, la Court 13) è un rapporto paritario, in cui il carico delle responsabilità e dei possedimenti è equamente distribuito, e il normale corso dell’infanzia è troncato sul nascere da un’educazione improntata all’autonomia e alla sopravvivenza. Hushpuppy non è una bambina, ma un “uomo”, una “boss lady” allo stato brado, che urla come un combattente, mena fendenti potenzialmente letali, rutta a comando (pare che l’abilità della Wallis in tale attività le abbia garantito il ruolo), spolpa granchi a mani nude, accende i fornelli con una fiamma ossidrica e non piange mai. O quasi.

Già, perché in fondo Hushpuppy è una bambina, nonostante il padre voglia svezzarla crescendola come un adulto. Dei bambini ha l’ostinazione, la sfrontatezza, l’ingenuità e soprattutto l’immaginazione, quella fantasia che cavalca impetuosa e feroce dai ghiacci in scioglimento giù fino alla devastazione del selvaggio Sud, in un faccia a faccia finale che incorona Hushpuppy imperatrice delle creature viventi, perfino di quelle che esistono solo nei sogni, o meglio, negli incubi ad occhi aperti. L’importante è che abbiano un cuore.

È nel battito del muscolo cardiaco che Hushpuppy riconosce il suono della vita («All the time, everywhere, everything’s hearts are beating and squirting and talking to each other the way I can’t understand» è la prima frase che le sentiamo pronunciare), e ad esso si affida per orientarsi nella sua ricerca prima di una soluzione al disastro ambientale, poi all’assenza della madre – creatura anch’essa fantastica, senza volto ma dotata di poteri magici – e infine alla malattia del padre. La convinzione che l’esistenza dell’universo dipenda dall’unione di tutti i suoi pezzi in un insieme coeso (“I want to be cohesive”) spinge Hushpuppy oltre i limiti del mondo conosciuto: un antro di strega che pullula di carne viva, una palafitta ingombra e sudicia, una bagnarola di rottami che si arresta dinanzi ad una muraglia di legno, alla barriera erette per separare la natura selvaggia dalla civiltà impacchettata nei suoi involucri di plastica.

Zeitlin va al cuore, è proprio il caso di dirlo, del discorso hobbesiano sulla separazione tra stato di natura e stato civile, cogliendo con occhio vigile e presente (la sua è una macchina da presa consapevolmente mobile, antropomorfa) i danni prodotti dallo sradicamento forzato, dal tentativo inutile di addomesticare uomini che si sentono bestie (il linguaggio usato da Hushpuppy per parlare di entrambi è sostanzialmente lo stesso) e come tali si comportano, al punto da rendere difficilmente interpretabile il titolo stesso del film.

Il mondo evoluto e tecnologizzato vorrebbe ingabbiare le bestie e curarle con macchine che si ritengono più forti delle pozioni, ma la sua ambizione non supera i suoi limiti e il fallimento, unito al sabotaggio dei ribelli, è misero e totale. Zeitlin simpatizza apertamente con i suoi selvaggi: la vertiginosa carrellata all’indietro che ne esalta la marcia conclusiva è celebrazione della loro resistenza ostinata, destinata a diventare esempio per i posteri. La simpatia del cineasta, però, non si limita alla facile cornice diegetica e sfocia, con encomiabile coerenza, nel mondo extradiegetico del reale, dove ad affiancarlo c’è una crew di fedeli professionisti e maestranze locali (il film è girato a Montegut, nella contea di Terrebonne) in grado di regalare alla sua opera prima una poeticità visiva intensa e commovente, quasi straziante nonostante il senso di speranza che infonde.

Il film vive grazie alla fotografia densa e palpitante di Ben Richardson, e alla calibrata alternanza di montaggio tra le sequenze realistiche e gli inserti fantastici di un ipotetico altrove primitivo, cui le musiche composte dallo stesso Zeitlin di concerto con Dan Romer sanno offrire degno accompagnamento: ora delicate e sospese come un carillon, ora minacciose nel seguire la corsa delle bestie ataviche. E se davvero, come sostiene Gregory Ellwood nel suo articolo sul film, la consapevolezza di Zeitlin è tale da fargli preferire una regia “naturalistica e apparentemente zen” che non tiene conto dei giornalieri fino a film concluso, allora è evidente che ci si trovi di fronte ad un talento naturale, con tutto il diritto di gareggiare con i vari Spielberg, Bigelow, Lee e Hooper nella corsa alle due statuette più ambite.

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Voto degli utenti: 8,7/10 in media su 3 voti.
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alexmn 9/10

C Commenti

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alexmn (ha votato 9 questo film) alle 14:17 del 13 febbraio 2013 ha scritto:

era l'ultimo film della cinquina per la regia che mi mancava (per il miglior film devo recuperarmi silver linings playbook). se i membri dell'academy giudicassero solo in base al merito, per me si giocherebbe la statuetta con hooper ad armi pari. il lavoro registico che sta dietro questo film è di una potenza notevole..se l’esistenza dell’universo è legata dall'unione delle sue parti in un sistema coeso, il film di zeitlin rappresenta una manifestazione di questa coesione e da questo trae la propria forza.

sarebbe un premio meritato e coraggioso.

poi le cose non andranno così e magicamente spielberg e la bigelow se la giocheranno, come da copione..a-meno-che..