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7/10

The Hateful Eight regia di Quentin Tarantino

Western
recensione di Alessandro Pascale

Nel Wyoming di fine '800 un gruppo di loschi e misteriosi personaggi si trova a dover condividere una locanda per scampare ad una bufera di neve. Fra cacciatori di taglie, boia, reduci di guerra e sedicenti sceriffi, si prospetta una difficile convivenza...

Tarantino torna sulle scene cinematografiche con un'altra rivisitazione dell'epoca ottocentesca statunitense. Dopo il successo dello spaghetti-western antirazzista di Django Unchained l'autore americano continua ad investigare il tema del far west, realizzando come al solito soggetto, sceneggiatura e regia. Stavolta la storia si sviluppa però come un giallo alla Agatha Christie, foderato di un'immancabile atmosfera pulp e delle solite lunghe conversazioni surreali e cariche di tensione diventate uno dei marchi di fabbrica del regista. Lo svolgimento della storia, divisa in episodi, si sviluppa in due fasi: nella parte iniziale ci ritroviamo circondati dalle montagne innevate del Wyoming, attraverso un viaggio in carrozza che lotta suggestivamente contro l'arrivo di una bufera invernale. Nella parte centrale e finale tutto si svolge in un piccolo emporio, secondo un'atmosfera semi-teatrale dagli spazi angusti e ristretti. Niente voli pirotecnici o effetti speciali particolari quindi, ma un soggetto costruito su dialoghi serrati e un'atmosfera thriller che non si limita a riutilizzare manovre alla Sergio Leone nella costruzione dei personaggi (facendo peraltro sfoggio della splendida colonna sonora di un Ennio Morricone in grande spolvero), ma che nello stile “classico tarantiniano” non si preclude il ricorso all'ironia, ad un'andatura scanzonata e sboccata, a tratti surreale per la sensibilità moderna, così poco abituata al politically scorrect così tanto prediletto ed utilizzato. Ad una lettura più attenta il tema del razzismo è ancora uno dei cardini dell'opera, nel bene e nel male, raffigurando così tutte le contraddizioni di un Paese, gli USA, che uscivano a fine '800 dalla guerra di Secessione, e lungi dall'aver sanato le proprie ferite avrebbero continuato a conservare un primato del paradigma WASP per oltre un secolo. La tematica della discriminazione e dell'odio razziale si unisce a quella della violenza che caratterizza un mondo ancora in balìa delle bande di fuorilegge, lasciando spesso i concetti di legalità e giustizia ad un livello meramente nominale.

L'incrocio tra queste due tematiche, ben presente in ogni singolo personaggio, avrà un esito sorprendente nel finale del film, mostrando forse un inaspettato ottimismo (o speranza) dell'autore nel ritenere possibile far prevalere la dialettica giustizia-crimine impostandola sull'alleanza razziale, in un intreccio idealistico che rende il film molto politico attraverso una lettura molto contemporanea e non meramente storica.

È certo però che l'opera si caratterizza soprattutto per l'accortezza di mettere assieme un cast di valore non indifferente, in cui spicca il ritorno in grande stile come protagonista di Samuel L. Jackson (il maggiore Marquis Warren), oltre alla solita straripante verve del pur marginale ruolo giocato da Tim Roth (Oswaldo Mobray). Un gradino sotto gli altri, pur notevoli: dalla Jennifer Jason Leigh che impersona la fuorilegge Daisy Domergue a Kurt Russell, nel ruolo del cacciatore di taglie “idealista” John Ruth, fino all'imprevedibile Walton Goggins nei panni del neo-sceriffo, ancora razzista, Chris Mannix . La costruzione dei personaggi è impeccabile per tutti, anche per quelli “minori” come Michael Madsen (Joe Gage), il “messicano” Demián Bichir (Bob) o il generale sudista Bruce Dern (Sanford Smithers). Vien da chiedersi piuttosto cosa abbia fatto di male Channing Tatum a Tarantino per essere trattato in questo modo...

A dirla tutta è comunque un film molto coraggioso quello di Tarantino, che struttura una storia lunga 3 ore prevalentemente su un crescendo leggero ma continuo di tensione, scandita da dialoghi e manovre sempre più diabolici. Qualche tempo morto di troppo c'è, e risulta certo discutibile la scelta di spezzare la parte conclusiva con un flashback di puro sapore pulp che forse non era così necessario, e che rischia di spiegare troppo togliendo mordente al finale, il quale comunque rimane avvincente e godibile, anzi quasi liberatorio. In definitiva The Hateful Eight non si erge certo a capolavoro, né quindi è uno dei migliori film di Quentin Tarantino, ma mantiene ciononostante una freschezza ed un fascino rétro che attaccano lo spettatore alla sedia per tutta la sua durata. Riuscendo anche a far riflettere, nonostante quel certo gusto splatter e pulp talvolta quasi comici ormai noti nell'autore.

 

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