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9/10

Eisenstein In Guanajuato regia di Peter Greenaway

Biografico
recensione di Enrico Cehovin

1931. Il regista sovietico Sergej Michajlovi& mostra spoiler

269; Ejzenštejn (Elmer Bäck), già noto per “Sciopero!”, “La corazzata Potëmkin” e “Ottobre”, si dirige in Messico per girare “Que Viva Mexico!”, film che non porterà mai a compimento.

Il cinema di Peter Greenaway, si sa, è barocco, strabordante, eccessivo, esagerato. Che possa essere indigesto? Si sa anche questo. E il suo nuovo lavoro non fa certo eccezione. Per chi avesse avuto il coraggio di dubitarne, "Eisenstein in Guanajuato" non si pone come un biografico tradizionale, anzi al contrario è quanto di più personale un regista possa fare per raccontare come immagina un suo collega. Greenaway non perde un secondo a dettare le regole dell'opera aprendo il film con l'arrivo di Eisenstein in Messico: parte con una veduta del paesaggio in bianco e nero seguita, a tempo di musica, da una rapida successione di fotogrammi di fiori e cactus, continuando con uno split screen triplo sull'automobile scoperta su cui Eisenstein sta arrivando nel Paese (con l'intento di girare un film), scoprendolo, osservandolo, traducendolo e mettendolo mentalmente in pellicola, vedute che partono a colori e vengono progressivamente scolorite fino a raggiungere il bianco e nero. Eccola l'intera operazione: la sovrapposizione del modo di vedere di Eisenstein con il modo di vedere (di) Eisenstein secondo Greenaway con la giusta e inevitabile preponderanza del regista ancora in vita che mantiene intatto il suo stile pur imitando e lasciandosi influenzare da quello sovietico. In "Eisenstein in Ganajuato" il cinema di Greenaway c'è tutto: la morte, la sessualità, l'arte, la putrefazione, le simmetrie, i lunghi carrelli laterali, il montaggio frenetico, perfino la figura del regista sovietico stessa viene piegata alla volontà di quello britannico che lo plasma per parlare dei temi a lui cari. Perché dell'Eisenstein originale si sa poco di quanto rimanga; quello di Greenaway è un eccentrico chiacchierone ossessionato dall'inadeguatezza del suo pene (con cui parla!) e più in generale del suo corpo in toto, mai accettato da una donna e giunto quindi vergine all'età di 33 anni, e dall'idea della morte che lo rincorre e lo fa interrogare se verrà ricordato. Stando alle sue stesse parole, Greenaway sceglie di raccontare il soggiorno in Messico perché secondo lui fu fondamentale nel cambiare l'approccio di Eisenstein al cinema che, scoprendo il sesso e la morte, venne umanizzato e passò dai primi film che vertono su idee e ideali, agli ultimi che vertono sulle persone, tanto da sottotitolare idealmente il suo film "I 10 giorni che sconvolsero Eisenstein" (parodiando il sottotitolo di "Ottobre", "I 10 giorni che sconvolsero il mondo"). Ed è proprio la perdita della verginità e l'esplorazione dell'omosessualità la scena chiave del film, una lunga sequenza che lascia poco all'immaginazione , una scena di rottura posta esattamente al centro del film, come gioiello della corona, come asse di simmetria. Il compimento di una vera e propria rivoluzione, con tanto di bandiera piantata! Ma l'inscindibile connessione che Greenaway vede tra sesso e morte - in questo senso esemplare "Lo Zoo Di Venere" - si manifesta anche in questa occasione e le continue immagini di mosche, larve e una chiave inglese che batte incessantemente su un calorifero tormentano la mente del suo Eisenstein che danza con gli scheletri e, persa l'innocenza, capisce di voler vivere, fin che gli sarà possibile, una vita da piena, fatta anche dei piaceri e dei peccati della carne (“I need to leave Heaven in a hurry.”). Nel film Greenaway trova spazio per parlare del rapporto di Eisenstein con i produttori, per raccontare il fallimento hollywoodiano, per far interrogare il suo protagonista sul tema della memoria preoccupandosi se anche lui, e i registi in generale, verranno ricordati come Leonardo e i grandi maestri del passato nelle altre arti. E, come sempre con Greenaway, i riferimenti ad altre forme d'arte si sprecano, spaziando dalla pittura, alla scultura alla fotografia con richiami visivi spesso messi in split screen mentre un determinato artista viene menzionato o magari confrontando la sua fotografia originale all'attore che nel film interpreta quel ruolo dando vita ad un bombardamento continuo di immagini non facile da digerire che vieta allo spettatore di staccare gli occhi dallo schermo stimolandolo con continui rimandi e associazioni di pensiero. Rimanere legato almeno parzialmente a una storia costringe Greenaway a proseguire nel racconto, a modo suo, aiutandolo a non perdersi nel ribadire fino all'esasperazione lo stesso concetto (vedi, per esempio, "Lo Zoo Di Venere" e "8 donne e ½") e giovando, quindi, al risultato complessivo. Dopo “Nightwatching” nel 2007 e “Goltzius And The Pelican Company” nel 2012, questo terzo biopic di fila riconferma la predilezione di Peter Greenaway per uno stile biografico non convenzionale, né scolastico né pedagogico, esattamente come lo era stato l'anno scorso - seppur totalmente diversi - Pasolini per Abel Ferrara, non altrettanto intimo ma di certo altrettanto personale.

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