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6/10

La Terra dell'Abbondanza regia di Wim Wenders

Drammatico
recensione di Fedra Grillotti

Lana torna a Los Angeles dalla Palestina per lavorare in una missione nei soborghi di Los Angeles. Suo zio Paul, con cui ha perso i contatti da anni, è un reduce del Vietnam che fa parte di un corpo speciale per la sicurezza contro il terrorismo. La morte di un senzatetto li riavvicinerà mettendo a confronto due facce dell’America post-11 settembre.

«Nel resoconto di Nietzsche sulla nascita della tragedia, la comprensione anarchica e “dionisiaca” dell’oscurità e imprevedibilità della vita si unisce a elementi “apollinei” di chiarezza e bellezza formale per produrre un’esperienza di intensità religiosa. Ho il sospetto che l’arte non abbia mai fatto particolare presa sull’immaginario americano perché il nostro è un paese dove sono accadute pochissime cose terribili».  

Nel 1996, Jonathan Franzen parlava così dello stato della cultura (in particolare della narrativa) negli Stati Uniti. Alla luce dell’undici settembre, queste parole assumono un’aura forse un po’ inquietante, ma indubbiamente profetica.  

L’attacco alle torri gemelle ha spinto l’intera società americana a confrontarsi con se stessa, con i propri timori e le idiosincrasie che la caratterizzano. Nel 2003 Wim Wenders cerca di trasferire il sentimento di una nazione nei due protagonisti di Land of Plenty: Lana, giovane attivista, fervente religiosa e figlia di missionari, ha vissuto in Africa e in Palestina per gran parte della sua vita. Torna negli Stati Uniti, per lavorare in un’associazione caritatevole che si prende cura dei bisognosi di ogni razza e nazionalità – ci sono più senzatetto e affamati nella contea di Los Angeles che in ogni altra parte degli Stati Uniti, la capitale americana della fame. Paul, suo zio, è un reduce del Vietnam, e negli anni della guerra l’esposizione alla diossina lo ha reso visibilmente disturbato e costretto all’assunzione costante di psicofarmaci che lo rendono ansioso e visionario. Viaggia su un furgoncino attrezzato per ogni tipo di controllo e intercettazione, emblema di una nazione schiava del terrore, che usa per monitorare le strade della città registrando ogni presunta attività sospetta.  

Il rapporto fra i due si ricuce in seguito all’omicidio ingiustificato di un mendicante di origine islamica, episodio a cui entrambi cercheranno di dare un senso finendo così per colmare a vicenda le proprie mancanze. La visione post undici settembre di Wenders si gioca tutta sui contrasti: quello fra le due personalità e le due esperienze di vita dei protagonisti, fra l’atmosfera di disagio e profondo sconforto che caratterizza la prima metà del film e l’ingenuo ottimismo che conferisce una nuova luce al finale, tra l’abbondanza del titolo ed il degrado dei sobborghi californiani, tra giochi di specchi e specchietti che riflettono i volti da inquadrature sempre nuove ed inaspettate. Il risultato è un’opera dalla forte carica spirituale, a tratti persino ingenuo nel suo ostentato ottimismo, in parte rallentato da una retorica a cui è difficile sfuggire trattando un tema tanto delicato. A controbilanciare i difetti di sceneggiatura ci pensano però l’ottima colonna sonora (che include il brano di Leonard Cohen che dà il titolo al film) e una gestione assoluta dello spazio visivo, delle immagini, dei silenzi.  

Il film, presentato alla 61esima mostra del cinema di Venezia, è stato girato interamente in digitale e presenta, anni prima dei più recenti esperimenti di Haggis e De Palma (Nella valle di Elah per il primo, Redacted per il secondo), un’intrusione della tecnologia perfettamente calibrata e pertinente: gli spezzoni delle videocamere montate sul furgone, i video provenienti dalla Palestina e le chat sul laptop di Lana, i colori saturi delle immagini a radiazione infrarossa compongono un puzzle ben preciso che richiama l’attenzione sulle immagini e sul loro fortissimo impatto emotivo. Non è un caso allora la cura quasi maniacale della fotografia, dei primi piani, dei riflessi negli specchi e negli schermi.  

La terra dell’abbondanza invia un preciso e disperato messaggio d’allarme che chiama in causa l’intolleranza dilagante nel Paese, le condizioni di povertà estrema e la criminalità più insensata. Ma pur mettendo in mostra le ferite vive che infettano il corpo americano, Wenders si sforza di dare risalto anche al processo di ricostruzione che si fonda sul ripristino dei più basilari valori comuni, dalla condivisione di un pasto al recupero dei legami famigliari, dalla preghiera come atto collettivo al silenzio come valore positivo, di comunione e non di isolamento.

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Voto degli utenti: 5,8/10 in media su 4 voti.
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alexmn 6/10

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SanteCaserio (ha votato 5 questo film) alle 1:24 del 3 giugno 2009 ha scritto:

Ricordo

di aver fatto fatica a stare dietro a tutto il film, in una saletta scomoda e fredda, dopo diverse ore insonni.

Rivisto in altra situazione sono riuscito a digerirlo. Fa un effetto strano ma sicuramente ha qualcosa da dire. Come giustamente annotato nella recensione l'impressione è che qualche pagina della sceneggiatura si sia persa o confusa nella stampa. [5 e mezzo]