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8/10

La 25ª Ora regia di Spike Lee

Drammatico
recensione di Tommaso Tschuor

Monty Brogan (Edward Norton) è un americano di origini irlandesi in attesa di scontare 7 anni di reclusione per traffico di droga. Decide di trascorrere le sue ultime 24 ore di “step-back” (un intervallo di tempo concesso tra la sentenza e l'incarcerazione) con le persone a lui più care, suo padre James (Brian Cox), la fidanzata Naturelle (Rosario Dawson) e gli amici d'infanzia Francis (Barry Pepper) e Jacob (Philip Seymour Hoffman).

Un cane abbandonato in mezzo ad una strada, preso a calci, utilizzato come posacenere ed un uomo che si ferma a soccorrerlo.

E' così che si apre la “25ª ora”, riadattamento cinematografico firmato Spike Lee dell'omonimo romanzo di David Benioff. Il film si concentra sui dilemmi morali vissuti da Monty e dalle persone con cui decide di trascorrere la sua ultima giornata da “uomo libero”, il problema del senso di colpa, il disagio ed il sentimento di impotenza provato dagli amici di infanzia, il concetto di responsabilità che non riguarda solo il protagonista ma anche gli individui che fanno parte della sua vita. Il tutto è calato nella tetra atmosfera di una New York ferita dall'attentato dell'11 settembre 2001, com'è possibile ad esempio notare sin dai titoli di testa, (che per Spike e il direttore della fotografia Rodrigo Prieto rappresentano dai tempi di Lola Darling un modo molto efficace per introdurre cio' di cui il film andrà a parlare) dove vengono ripresi i fasci di luce del “Tribute in Light”, dalla scena nell'appartamento di Francis dove viene ripreso Ground Zero, o come appare attraverso gli allestimenti del Pub Irlandese del padre James, con un altare dedicato ai vigili del fuoco della squadra “Rescue 5”.

E' proprio davanti ad uno specchio di questo pub che si svolge l'ormai celebre monologo del “vaffanculo” interpretato dall'impeccabile Edward Norton, un agghiacciante grido di rabbia indirizzato contro “il prossimo”, dove nessuno viene risparmiato: dalle diverse etnie della Grande Mela fino ad arrivare a Gesù Cristo, salvo poi terminare con la presa di coscienza del fatto che se Monty dovrà passare 7 anni della sua vita in carcere la colpa è solo sua e di nessun altro.

Probabilmente la vera difficoltà che il regista ha dovuto affrontare risiede proprio nel dare il giusto spazio alla storia e non far sì che venga soffocata dal pesante dramma che ha segnato New York e in questo Spike Lee riesce alla perfezione: le tematiche non risultano mai banali e la città (pur avendo un ruolo da protagonista) resta cio' che deve rimanere, il mondo-ambiente dei personaggi; il tutto avviene rispettando l'arco temporale delle 24 ore accompagnato da opportuni flash-back.

Assolutamente degni di nota sono un Philip Seymour Hoffman incredibile, nei panni di un professore di letteratura in piena crisi morale ed un Barry Pepper reduce da Salvate il soldato Ryan nelle vesti di un agente di borsa i cui unici interessi sono soldi, donne e rientrare nel 99° percentile della sua originale scala di sex appeal. Tra le immancabili “carrellate alla Spike” che fanno letteralemente fluttuare attori e spettatori, si inserisce la colonna sonora di Terence Blanchard, collaboratore storico di Spike Lee (ormai dai tempi di Fa' la cosa giusta e Mo' Better Blues) che, oltre ad inserire pezzi epici anni 70' come “Bra” dei Cymande, è riuscito ad effettuare un accostamento sperimentale tra musica tradizionale irlandese e musica islamica davvero convincente.

Le note negative del film sono sicuramente il personaggio interpretato da Rosario Dawson, la fidanzata di Monty “Naturelle Riviera” che indipendentemente dalla prestazione dell'attrice, rimane privo di profondità ed emozioni; parecchio fastidiosi anche gli stacchi doppi (alle volte anche tripli) utilizzati dal regista per enfatizzare i conatti fisici tra i soggetti, finiscono per annoiare e danno l'idea di essere troppo forzati.

Nella parte finale del film Monty si ritrova nelle medesime condizioni del cane Doyle, ferito e abbandonato al suo destino. Questa volta però non ci sarà nessuno a soccorrerlo, solo di fronte all'amara realtà del carcere non può far altro che viaggiare nella sua “25ª ora” e sognare una vita diversa, lontano dalle sbarre di un futuro forse ancor più amaro del suo passato.

Così si conclude un altro grande colpo del regista afroamericano Spike Lee, uno spezzone di vite che richiama lo spettatore a riflettere sulla propria esistenza in rapporto a quella degli altri, un invito a rompere definitivamente le catene dell'odio razziale, situazione raggiungibile solo attraverso una seria ed onesta presa di coscienza della condizione dell'uomo, del tutto scevra da quel tipico manicheismo romantico che mette in risalto le differenze piuttosto che farle scomparire.

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