A Intervista a Lorenzo Lavia

Intervista a Lorenzo Lavia

Lorenzo Lavia (Roma, 1972), fra i più apprezzati attori di teatro italiani, è attualmente nelle sale cinematografiche con Smetto quando voglio, film che lo vede fra gli interpreti insieme a Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero de Rienzo, Pietro Sermonti. La pellicola è diretta da Sydney Sibilia (al suo esordio nel lungometraggio dopo una serie di corti, Iris Blu, 2005; Noemi, 2006; Oggi gira così, 2010), anche sceneggiatore insieme a Valerio Attanasio e Andrea Garello. Lorenzo interpreta Giorgio Sironi, latinista di fama internazionale il quale tira a campare lavorando come benzinaio, in coppia con Mattia (Aprea), suo collega, tanto nel significato umanistico che “materiale” del termine. Ambedue, come ogni studioso che si rispetti, sono distanti dalla gretta tangibilità del vivere terreno e il loro pensiero è spiritualmente volto a qualche “pianeta libero” verso il quale poter esternare il proprio sapere.

Figlio dell’attore e regista Gabriele Lavia e dell’attrice Annarita Bartolomei, Lorenzo Lavia si appassiona fin da ragazzo al mondo dell’arte teatrale ed inizia a lavorare presto nel settore, debuttando proprio diretto dal padre nel Riccardo III, 1989, per poi recitare con registi quali, fra gli altri, Massimo Scaglione (L’angelo, 1994) Mario Missiroli (Lulu, 1990), Giuseppe Patroni Griffi (Persone naturali e strafottenti, 2002), Piero Maccarinelli (Vita col padre, 1995; Blackout, 2006; Colazione da Tiffany, 2012). Pur se il teatro rimane l’attività principe, Lorenzo ha anche preso parte a varie serie televisive (da Vento di mare, Gianfranco Mingozzi, 1991, a il Delitto di Via Poma, Roberto Faenza, 2011) e realizzazioni cinematografiche (come Dove siete io sono qui, Liliana Cavani, 1993). Nel corso del 2014 è previsto il suo debutto alla regia con lo spettacolo Vero Amico di Carlo Goldoni.

(introduzione di Antonio Falcone)

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Visto che Smetto quando voglio si ispira apertamente a una tipologia di cinema e serialità televisive americani, hai avuto come riferimento qualche tipo di comicità in particolare?

In realtà non credo che né per me né per gli altri del cast ci sia stato qualche riferimento in particolare: affrontando il personaggio ci si ritrova più che altro tra sé stessi e la sceneggiatura. E' poi la scrittura e le situazioni descritte in essa che ti portano a somigliare più ad una cosa o ad un'altra e quando leggi un copione pensi soprattutto al film che devi fare. Alla fine non credo che Smetto quando voglio si ispiri poi così tanto alle commedie americane. E' vero che c'è un po' di Breaking Bad ma si potrebbe fare un paragone anche con I Soliti Ignoti: come i protagonisti di Smetto quando voglio delinquono perché non riescono a fare quello per cui avevano studiato, i soliti ignoti delinquono perché hanno fame. Si tratta in realtà di situazioni abbastanza drammatiche, in entrambi i casi. Del resto si ride sempre delle disgrazie, no? Più che noi ad aver fatto qualcosa di americano, è che finalmente abbiamo raccontato una storia che gli altri non raccontano. E forse non è vero che siamo meno italiani: è che non abbiamo raccontato una storia di ex sessantottini, o di quarantenni con problemi esistenziali, ma abbiamo raccontato altro.

Si tratta quindi di una tendenza positiva, secondo te, giusto?

Io credo che sia assolutamente positiva. Poi non è che il nostro film è più bello degli altri: ci sono tanti bei film ma spesso vanno verso un'unica direzione, un'unica tematica. Noi abbiamo spostato la tematica, tutto qua.

E' forse più che altro una questione di stile diverso dal solito?

Sì, il regista ha trenta anni, è molto più giovane di me, quindi sicuramente è molto “presente nel momento”, quindi in questo senso si potrebbe dire che è al tempo stesso molto americano, svedese, di Hong Kong. Diciamo che il punto è che se uno segue il cinema internazionale, ma un po' in tutto, in generale (nella cultura, nella politica, etc.) l'Italia è in ritardo, non vive nel presente, anche se comunque ci sono molte persone che vivono nel presente. Ad esempio Procacci, il nostro produttore, con la Fandango, ha capito anche lui che è un “produttore del presente”...

Come è stato lavorare con un regista giovane come Sidney Sibilia? Che tipo di indicazioni hai ricevuto? C'è stato molto spazio per l'improvvisazione?

Guarda, noi la chiamiamo “opera prima” perché Smetto quando voglio è il primo lungometraggio, quando in realtà Sidney viene dall'esperienza di altri 4-5 cortometraggi (di cui due hanno vinto anche premi importanti), quindi ho trovato una persona che stava molto a suo agio sul set e che ha fatto stare tranquilli e a nostro agio anche noi singoli attori. Per la seconda domanda, invece, dipende dalle situazioni: certe volte ci faceva improvvisare e andava bene, altre volte magari improvvisavamo delle scene, delle cose che a noi facevano tanto ridere - e che facevano ridere gli altri - ma poi Sidney le ha dovute tagliare perché avrebbero tolto la linea del film. Sarebbe stata una comicità un po' spudorata e fine alla battutina quando invece ci si trova all'interno di un racconto e di una storia.

Quanto influisce sulla recitazione il fatto che si tratti di un film corale in cui ci si trova spesso in scena in contemporanea con molti altri attori? Ti è stata di aiuto l'esperienza teatrale in questo senso?

In realtà non credo che ci sia particolare differenza a recitare da solo o con gli altri: recitare con gli altri è più semplice perché ci si aiuta a vicenda. Forse a teatro è più difficile: nel cinema hai la tua scena, il tuo primo piano, il totale, il primo piano dell'altro, etc, invece a teatro è molto più facile che qualcuno ti si metta davanti mentre parli e non puoi rifare la scena! Puoi solo dargli un cazzotto in segreto al fegato per farlo spostare... A parte questo, per me non c'è differenza tra cinema e teatro: ovviamente sul set, anche se sei “solo”, ci sono sempre cinquanta/cento persone di troupe. Conosco attrici – di cui ovviamente non faccio il nome, ma è ancora famosa - che hanno detto all'addetto ai fuochi di star fermo, quando lui la doveva mettere a fuoco il primo piano di lei... quindi tutto è relativo però, almeno per me, non c'è grande differenza.

Le scene dei litigi in latino con Valerio Aprea sono veramente molto divertenti: come le avete preparate? Avete utilizzato reminiscenze liceali?

Se dovessi usare le reminiscenze liceali, avrei dovuto fare un film sugli ultimi della classe: avrei fatto più Porky's che un latinista di fama mondiale! Infatti il mio professore di latino e greco mi ha contattato, scrivendomi “Chi l'avrebbe mai detto che un giorno saresti stato un latinista.” In realtà siamo andati in un centro a Roma dove vengono da tutto il mondo per studiare il latino e si parla latino 24 ore su 24, si fanno lezioni, si discute in latino: insomma è veramente obbligatorio parlare solo in latino. Siamo andati lì anche per vedere come lo parlavano tra di loro: lo parlano veramente bene e noi abbiamo cercato un po' di copiarli, anche se tante cose venivano anche un po' saltate, come nella lingua parlata nostra. Quando invece salti ad esempio una “t” ad una parola, il significato può cambiare completamente in latino, cosa che il mio personaggio non poteva permettersi in quanto latinista di fama mondiale. Una volta, mentre giravamo una scena si erano fatte le quattro del mattino e non ce la facevo più, dimenticavo la “t”. Ad un certo punto ho preso un fogliettino e l'ho attaccato con lo scotch a Edoardo Leo, anche se poi la cosa mi ha tranquillizzato perché non l'ho più utilizzato e sono riuscito ad andare avanti con la scena, che era piuttosto complicata... Del resto, alle quattro del mattino, avevo voglia di fare tutto tranne che parlare latino!

(intervista di Alessandra Graziosi)

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