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9/10

Il padre d'Italia regia di Fabio Mollo

Drammatico
recensione di Alessandra Graziosi

Un trentenne omosessuale appena uscito da una reazione deve accompagnare ad Asti una giovane ragazza incinta conosciuta in una dark room.

Il Padre d’Italia, pellicola agrodolce che vede protagonisti due dei più notevoli attori del cinema nostrano, è la riuscitissima opera seconda di Fabio Mollo, già regista del pluripremiato e molto apprezzato dalla critica Il sud è niente.

Siamo di fronte ad un film molto maturo e ben congegnato, senza per questo perdere in naturalezza, che catapulta lo spettatore dal mondo sottotono e contrastato dell’iper-responsabile Paolo (Luca Marinelli) a quello variopinto e candidamente folle di Mia (Isabella Ragonese), la quale vive come una gatta randagia e sembra non preoccuparsi mai del domani.

Come ogni buddy movie e on the road che si rispetti, non sembrano esistere due protagonisti più incompatibili e lontani di così, almeno dalle premesse iniziali. Il piacere principale che si prova guardando Il Padre d’Italia sta proprio in questo assistere all’andirivieni di avvicinamenti e allontanamenti tra i due protagonisti, interpretati e diretti in modo magistrale.

A differenza di quanto accade purtroppo spesso in parte del cinema italiano, Paolo e Mia sono vivi e vividi, vivono di vita propria senza forzature di sorta per favorire la storia alla loro natura e modus vivendi.

Il Padre d’Italia è una deliziosa scoperta in grado di smuovere a chi lo permette molti cliché relazionali, psicologici e sociali, in particolare per quanto riguarda il concetto di identità e le annesse problematiche comportamentali.

Il bello è che nonostante la profondità della storia e dei personaggi, non assistiamo mai a un film a tesi: al contrario la naturalezza del tutto sembra trascinare in direzione di un vortice che prima o poi non può che spingerti fuori, solo che non sai quando…

Una cosa porta l’altra, un passo dopo l’altro, un’azione ad una reazione e così via per tutto il film, il quale mette in opera un’altra coraggiosa scelta: quella di ambientare la storia in un ristretto arco temporale continuativo, amplificando così la coerenza dell’insieme degli elementi diegetici. Come una diretta, il regista induce lo spettatore in una condizione di “voyerismo” molto pura, dato che al tempo stesso non molla neanche l’aspetto della verosimiglianza, camminando sul una stretta corda in bilico tra il particolarissimo e l’archetipico.

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