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6/10

Notte E Di regia di Michael Curtiz

Drammatico
recensione di Leonardo Romano

La vita del grande compositore Cole Porter: gli inizi difficili e il grande successo, nonchè una brutta caduta da cavallo che gli procurerà perfino una paralisi. Il tutto, però, affiancato dall'amorevole moglie Linda.

“Se sopravvivo a questo, posso sopravvivere a tutto”

Pare che questo sia stato il commento dello stesso Cole Porter (caso più unico che raro di un compositore che si vede dedicare un film quando ancora è in vita) alla moglie Linda Lee Thomas, al termine della première del film (nel lontano 2 luglio del 1946).

Forse l’ironico (ancorché caustico) commento del grandissimo songwriter è esagerato, ma non del tutto fuori luogo.

Prima di tutto, l’attendibilità storica del film è pari allo zero: basti solo il fatto che non si fa menzione (anzi, si ignora deliberatamente) l’omosessualità di Cole Porter (allora ad Hollywood era in vigore il terribile e puritanissimo Codice Hays, che proibiva di parlare di qualsiasi forma di “devianza”, fra cui l’omosessualità era annoverata) e che di conseguenza si parli del matrimonio di Porter con Linda Lee Thomas come di una vera e propria relazione amorosa (fra i due c’era un profondo e sincero affetto, ma nessuna forma di coinvolgimento sentimentale). Senza poi contare le baggianate d’ogni tipo di cui il film abbonda (anche se mi pare abbastanza inutile ed ozioso star qui ad elencarle tutte)!...

Va detto che anche la scelta del protagonista, Cary Grant, ci lascia interdetti non tanto per la scarsa somiglianza (a chi faceva notare a Cole Porter che forse il suo amico Fred Astaire sarebbe stato fisicamente più adatto ad interpretarlo, era solito rispondere con ironia: “Se avessero scelto Cary Grant per interpretare TE, tu te saresti forse lamentato?”), quanto per lo scarso entusiasmo con cui il grande attore britannico si accosta al personaggio: sembra ripetere il personaggio che l’ha reso famoso – il dandy britannico soffuso d’ironia – ma in modo meccanico e senza estro, quasi ottemperando ad un obbligo contrattuale.

Va detto francamente, però, che lo scarso brio di Grant è da addebitare soprattutto a una sceneggiatura piatta, convenzionale (iter trito e ritrito del biopic classico: le aspirazioni, gli inizi difficili e finalmente il successo. Che volo di fantasia, eh?), in cui perfino il dramma della caduta da cavallo del compositore (che lo porterà all’amputazione di una gamba) deve comunque portare a una sorta di ottimistico lieto fine dolciastro in cui tutto è bene ciò che finisce bene.

La messa in scena vorrebbe risultare sfarzosa e lussureggiante (di sicuro, Michael Curtiz aveva in mente i coevi prodotti della MGM), ma l’effetto finale è quello di una sorta di coloratissimo cattivo gusto pacchiano (del resto, sempre dietro l’angolo nei kolossal musicali usciti dagli studios di Hollywood in quegli anni. Solo i veri fuoriclasse come Vincente Minnelli sapevano come mantenersi sempre in equilibrio sul quel filo invisibile che separa il lusso dal kitsch).

L’unica effettiva piacevolezza di tutta la pellicola è la presenza di una pimpante e spiritosa Mary Martin (stella di Broadway da noi praticamente sconosciuta, ma che ha al suo attivo ruoli da protagonista negli allestimenti teatrali originali di strepitosi successi quali “South Pacific” e “The Sound of Music” ovvero“Tutti insieme appassionatamente”) che interpreta se stessa ed ha così l’occasione di cesellare con spiritosa malizia una memorabile “My Heart Belongs to Daddy”, perfino superiore alla versione di Marilyn (doppiata, però, nella versione italiana).

Visto che ne ho parlato adesso, è bene spender due parole sul doppiaggio musicale di questo film.

Come ho detto in altre occasioni, gli spettatori italiani son sempre stati allergici al musical (“Perché pagare un biglietto del cinema per andare a sentire dei tizi che miagolano in inglese per due ore?” pareva che fosse il mantra ricorrente) e, fin dal dopoguerra, i distributori hanno pensato di render più digeribile i “miagolii”, doppiandoli (il sottotitolo non avrebbe aiutato molto: all’epoca, l’analfabetismo era ancora molto diffuso).

Quattro decenni di doppiaggio musicale hanno saputo partorire anche delle piccole perle, ma nel caso di “Notte e dì” ci troviamo di fronte a delle perle…di Guttalax!

Non solo le canzoni sono doppiate “a macchia di leopardo” senza il benché minimo criterio (alcune lo sono, altre no, alcune addirittura lo sono a metà!), ma con quel modo di porgere tipico dei cantanti di musica leggera di quegli anni, così avvitati su un leziosissimo birignao, che oltre a risultare ridicolo ai nostri orecchi (è un po’ come se sentissimo cantare “Bewitched” da Nilla Pizzi) ci rimane anche di difficile intelligibilità (ammetto senza vergogna di essermi perso almeno una parola su tre di questa supercazzola musicale).

L’unica curiosità che vi potrebbe spingere ad aguzzare le orecchie è forse sentire un giovanissimo Alberto Sordi - che, nel secondo dopoguerra, oscillava ancora con una certa indecisione fra il leggio, il grande schermo e gli studi radiofonici - prestare la sua voce ad un insolito Cary Grant canterino in modo sicuramente meno disprezzabile e più asciutto dei suoi anonimi ed esecrabili (benché più intonati) colleghi (al dialogo di Grant provvede invece la sua voce di fiducia, il bravissimo Gualtiero De Angelis).

Per carità cristiana, mi sento di non infierire più del dovuto sulla stucchevole convenzionalità dell’adattamento italiano: i testi di Cole Porter, come una nave in avaria, sembrano dirigersi implacabilmente e rovinosamente verso gli scogli di “Mamma”, inzeppati come sono di parole tronche in rima baciata.

Michael Curtiz, che ha al suo attivo anche film davvero memorabili come Casablanca o La leggenda di Robin Hood, raggiunge con questo musical forse il punto più risibile della sua carriera (costellata di grandi film, ma anche di prodotti decisamente mediocri come questo o come Amore sotto coperta, tanto per citare un altro titolo).

Questa pellicola appartiene al genere ormai ben collaudato del “pezzo da museo da usare come tappabuchi nel caso in cui non si sappia come riempire un palinsesto”.

Se vi dovesse capitare di vederlo qualche mattina su Rai Tre o su Rai Movie, fatemi eventualmente sapere che cosa dicono i mediocri doppiatori italiani delle canzoni.

Se vi dovesse sfuggire la visione di questo rutilante filmetto, mi sento di dirvi che non vi siete persi un granchè.

In tempi più recenti si è tentati di riparare al torto subito, dedicando un altro musical al grandissimo Cole Porter, biograficamente meno campato in aria, ma di fatto non meno inconsistente: non è che Kevin Kline sia più credibile o somigliante di quanto non potesse esserlo Cary Grant e far cantare le sue canzoni ad Alanis Morissette, Natalie Cole, Sheryl Crow, Lara Fabian, Robbie Williams, Elvis Costello – con astuto senso del marketing, ma con un senso dello stile pari allo zero, visto che nessuno di loro ha la benché minima idea di come si canti un brano classico – non è forse meno ridicolo e grottesco del vetusto “grammelot” musicale che sciorina il mediocre doppiaggio italiano di questo “Notte e dì”.

Prima o dopo l’avvenuto decesso, pare che il cinema si diverta a maltrattare la vita di Cole Porter con pellicole non memorabili. Quindi, visti i precedenti, mi auguro – come amante del cinema e non ultimo della “mòseca” – che a nessuno venga in mente di dedicare a questo grandissimo compositore un terzo film e che lo lascino finalmente riposare in pace.

Se avete voglia di sentire la sua splendida musica, limitatevi ad ascoltarla e non a vederla.

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