R Recensione

6/10

Belli di papà regia di Guido Chiesa

Commedia
recensione di Giulia Betti

Un padre può mantenere cento figli, ma tre figli riuscirebbero a mantenere un padre? Vincenzo è un imprenditore di successo. Vedovo, rimasto improvvisamente solo, deve badare a tre figli ventenni, Matteo, Chiara e Andrea, che rappresentano per lui un vero e proprio cruccio. I ragazzi vivono, infatti, una vita piena di agi, ma senza senso e soprattutto ignari di qualsiasi responsabilità, con una quotidianità leggera, lontana dai doveri e dalla voglia di guadagnarsi la vita. Vincenzo tenta perciò di riportarli alla realtà: una messinscena con cui fa credere ai figli che l'azienda di famiglia stia fallendo per bancarotta fraudolenta. Sono perciò costretti ad un'improvvisa fuga degna di veri latitanti. I quattro si rifugiano in una vecchia e ormai malconcia casa di famiglia in Puglia. Per sopravvivere, Chiara, Matteo e Andrea dovranno cominciare a fare qualcosa che non hanno mai fatto prima: lavorare.

 

Essendo fortemente tentata di dare avvio a questa recensione rendendo trasparente il mio pensiero sul film in oggetto, senza imboccare troppi vicoli inutili, ammetto subito che Belli di papà si evidenzia come un prodotto di facile presa sul pubblico, una “commediola scremata”, povera di pretese, ideata ed ideale per appetiti a dieta di prodotti interessanti, che prediligono il film light rispetto a quello ben farcito, il quale richiederebbe ben più tempo a digerirsi e un palato più esperto per essere apprezzato.

 

Se immaginiamo le intuizioni brillanti come calorie alimentari, torno a fare uso dell’aggettivo “scremata” per farvi prendere coscienza della qualità dell’opera e scoraggiare eventuali aspettative troppo pretenziose nei di lei riguardi.

 

Poche le battute interessanti e realmente comiche, molte le scivolate sul banale ed il prevedibile. Abatantuono non si discute, è sempre se stesso e gli viene bene, sa interpretarsi all’eccellenza, il Pisani risulta piacevolmente credibile nelle vesti del bamboccione di buona famiglia, con tanti soldi e poche idee per farli fruttare, zucca semivuota ed animo sensibile, Francesco Di Raimondo è l’unico attore, fra i più giovani, realmente promosso a buoni voti, al contrario del suo personaggio, fintamente filosofeggiante e profondo, che la scuola la frequenta come si frequenterebbe uno speed date della terza età, ed infine Matilde Gioli che propone la versione economica di quel suo personaggio de Il capitale umano di Virzì, in cui ci era piaciuta abbondantemente di più.

Guido Chiesa, regista di titoli noti come Il partigiano Johnny (2000) e Lavorare con lentezza (2004), ammette di aver accettato la proposta della Colorado Film, dopo la visione del film messicano del quale Belli di papà è il remake, Nosotros los nobles di Gary Alazraki, e avendo trovato la materia del lungometraggio molto interessante.

Nutrendo tutta la stima ed il rispetto possibile nei confronti del sopracitato regista torinese, ammetto che mi è veramente difficile trovare dell’interessante nalla sfruttatissima fiaba della “Cenerentola inversa”. Belli, maligni e ricchissimi, incapaci di sopravvivere senza agi e servitù, che si ritrovano a strisciare come viscidi anellidi nel fango della povertà, interfacciandosi con un mondo difficile nel quale riusciranno a resistere sempre e solo grazie alla bontà di quei poveracci che prima si prendevano gli insulti dalle varie ed eventuali “bottane industriali” e che poi si ritrovavano a far loro da tutori per iniziarle alla vita vera.

Ma se il personaggio di Mariangela Melato nel noto capolavoro esotico della Lina Wertmüller era si ricca, si omofobica, si razzista, ma pur sempre una donna dalla cultura non indifferente, e con una capacità negli affari da non sottovalutare, e soprattutto da fare invidia ai personaggi del film in questione, quest’ultimi, essendo titolarmente figli di papà, non sanno fare niente se non vivere sulle spalle del genitore, che (altra intuezione geniale!?!) non è altro che un povero arricchitosi grazie al sudore ed il talento.

Tracce di materia fertile se ne trova ad intervalli per tutta la durata del film, ma bisogna prestare notevole attenzione e affidarsi al fiuto personale. Non c’è approfondimento, o lo spunto interessante lo si coglie al volo nel momento in cui ci si presenta o non lo si prende più. Ci vuole velocità come nel gioco “Occhio alla talpa” per acciuffare certi riferimenti originali, tra i tanti tarocchi. Fra questi ho trovato particolarmente stimolante il tema dell’apparenza, grande dogma sociale unanimemente condiviso, specialmente negli anni P.F (Post Facebook).

Il primo sintomo del perpetuo tentativo di apparire è l’abbigliamento dei tre giovani protagonisti, minuziosamente curato, assunto a maschera del personaggio, quasi perfettamente coerente con la tremenda moda odierna dell’orrido che come una pestilenza affligge tanti individui deboli di gusto. L’abito che fa il monaco, che colloca immediatamente un individuo nella classe sociale d’appartenenza e che oggi, anche grazie ai media, divide gli esseri umani in “dettatori” di stile e popolo sottomesso alle leggi della moda.

Il secondo sintomo è il volere apparire “Vincenti” e quindi ricercare con insistenza l’approvazione degli altri, magari pianificando invenzioni inutili ed inapplicabili, fondando startup senza fondamenta, o aprendo attività “troppo avanti” persino per Milano, la più progressista e trasformista fra le città italiane. Creare la confezione ad un’idea che ancora non si ha, pare essere uso e costume molto comune fra i giovani odierni, una confenzione che ancora una volta è sinonimo di apparenza.

E consigliando al Chiesa di recuperare quell’operetta adolescienziale di Martha Coolidge chiamata Material Girls (2006), poco più interessante del suo film, ma di ben dieci anni prima, ricordo ai lettori che ogni opera vale il costo del biglietto, perché è pur sempre un ottimo esercizio per la mente e per il gusto allenarsi a discernere il bello dal banale.

 

 

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