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7/10

Un amore all'altezza regia di Laurent Tirard

Commedia
recensione di Giulia Betti

Diane è una bella donna. Molto bella. Brillante avvocato, spiritosa e determinata. E ha appena messo fine a un matrimonio che non la rendeva felice. Ora si sente pronta a incontrare l'uomo della sua vita. Guarda caso, un bel giorno Diane riceve una telefonata da un certo Alexandre, che ha trovato il suo cellulare. Durante la loro conversazione telefonica accade qualcosa. Alexandre è garbato, spiritoso e a quanto pare anche colto. Diane ne resta affascinata. Ben presto fissano un appuntamento. Ma il loro incontro non andrà affatto come previsto...

Con il suo ultimo film, Laurent Tirard punta l’obbiettivo della macchina da presa sulla Vergogna, mostrandocela nella sua ignobile, volgare e onnipresente forma, discutendola adoperando i toni dolce amari della favola, e facendocela provare e penetrare sulla pelle lasciandoci tra lo stomaco e il cuore un acre senso di colpa, e (ugualmente) di sollievo.

Armato di sobrietà e gusto, il regista francese, senza mai calcare la mano, sfiorare il melodrammatico e cadere nel grottesco, ci afferra per l’orecchio e ci costringe ad osservarci ritratti in uno di quegli specchi deformanti apprezzati dai bambini e i sognatori; quelli dove i bassi appaiono giganti, i grassi magri, gli snelli tozzi e gli alti...piccoli come nani.

In una fiaba come tante, dietro le zanne e la pelliccia della bestia c’è quasi sempre un principe e sotto la viscida pelle del ranocchio...pure, ma questa non è una storiella per bambini, è un’istantanea di vita vera, non si necessitano dunque trasformazioni finali e metamorfosi di fantasia per capire che nei centotrenta centimetri di un piccolo uomo si può nascondere un cuore di leone, una mente non comune, uno spirito valente e una dignità inarrivabile (e difficilmente calpestabile), come certo non può dirsi di quella dei molti watussi del film, tra cui la protagonista Diane.

Pur rimanendo saldamente aggrappato al realismo e mai cedendo al desiderio di imbrattarsi di polvere di stelle per volare nei territori del fantastico, “Un amore all’altezza”, per quanto concerne i toni, i temi e gli obbiettivi che si pone di raggiungere, appare notevolmente simile al cult dei fratelli Farrelly “Amore a prima svista” (2001) dove, a ruoli totalmente invertiti, Gwyneth Paltrow interpreta il freak della situazione, una donna gigantesca che soffre di una grave forma di obesità e Jack Black, veste i panni di un ragazzaccio dalla dubbia moralità, che se ne innamora pazzamente aiutato dalla magia, la quale, atrofizzando il nervo ottico del pregiudizio pilotato dal canone estetico vigente, gli permette di vederla e apprezzarla per ciò che realmente e intimamente è.

In entrambi i film, è chiesto al “normoide” di turno di superare con fatica lo sguardo pesante e crudele dell’opinione pubblica, scegliere di amare il “diverso” (basso, grasso, nero, giallo, storpio, povero ecc…), e non lasciarsi sopraffare, soffocare e soffriggere dalla vergogna, dunque non soccomberle ma al contrario...sovrastarla.

Questo è ciò che pretendiamo dal personaggio interpretato dall’aggraziata e seducente Vergine Efira fin dal principio della storia. Riuscirà però a farlo? Ovviamente… Non è di sicuro la conclusione la parte interessante del film, e non ci si aspetta certamente un finale diverso da quello che si è già messo in conto a partire dai titoli di testa (per altro molto simpatici). Ciò che più sapremo apprezzare sarà la descrizione di questo Viaggio della Vergogna, quello estremamente formativo che accompagnerà la nostra protagonista fino al cambiamento finale, l’unica metamorfosi che vedremo, anzi “percepiremo” come spettatori. Dunque un sentiero fatto di differenti tappe: l’imbarazzo che Diane prova nel presentarsi al mondo al fianco del minuto Alexandre (interpretato da Jean Dujardin), quello che nutre verso se stessa e nei riguardi di lui per aver covato quella stessa vergogna di fronte alla società giudicante, e infine l’umiliazione del dover ammettere quanto peso abbia nella sua vita l’opinione degli altri: amici, parenti e sconosciuti. Infine, c’è posto pure per un’altra vergogna, la nostra. Quella che proviamo nel momento in cui assumiamo la consapevolezza di essere esattamente come lei e come loro, la folla, i lapidatori, e ci sentiamo gretti, bassi (nell’unico senso dispregiativo del termine) e meschini.

 

 

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