I Soliti Idioti regia di Enrico Lando
CommediaFabrizio Biggio e Francesco Mandelli al loro esordio sul grande schermo, dopo i successi televisivi su Mtv, nel tentativo di raccontare in maniera più corposa e corale pregi e difetti dell'Italia di oggi.
Oggetto di dotte disquisizioni sociologiche già a poche ore dal debutto sul grande schermo, concretizzatesi di giorno in giorno nella costante ricerca di un qualcosa di valido che potesse giustificare il gran botto al botteghino, I soliti idioti appare sin dai primi minuti trasportato di peso sul grande schermo, senza mediazione stilistica alcuna, tanto di sceneggiatura (Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli, Martino Ferro) che di regia (Enrico Lando), rispetto a quanto sinora andato in onda, con più efficacia, sull’emittente musicale Mtv.
Mandelli e Biggio si prodigano infatti nel tentativo, vano ma con uno sforzo tale da sfiorare la recidività, di conferire una connotazione corale alla pellicola, moltiplicandosi, come e più degli evangelici pani e pesci, nei vari personaggi (la coppia gay “normalizzata” in attesa di un figlio, la famigliola borghese altolocata con i suoi bei pregiudizi pronti alla bisogna, un pony express che tenta invano di spedire un pacco trovandosi davanti sempre la stessa impiegata), cedendo infine le armi, col noto duo padre-figlio a dominare inevitabilmente la scena.
Nel susseguirsi scomposto e sussultorio dei vari sketch, altra definizione gentile non è possibile, con i tempi comici che nel frattempo sono andati a farsi benedire, l’episodio dell’imprenditore romano Ruggero, furbetto del quartierino con voglia di “cummenda”, intento a mettere in campo una particolare educazione sentimentale nei confronti del figlio Gianluca, romantico sognatore prossimo al matrimonio, cercando di plasmarlo a sua immagine e somiglianza, appare infatti come il più indovinato, nel complesso, senza mai però riuscire ad elevare il grottesco e il demenziale a vera e propria satira di costume, fermandosi ad una farsa semplicemente sguaiata “e più non dimandare”.
Lasciando da parte I mostri, insieme caustica satira al limite del cinismo su tutte le “mostruosità” proprie della società italiana degli anni Sessanta, ed operazione antropologica dai toni quasi lombrosiani, il cui unico punto di contatto potrebbe essere la struttura episodica dall’andamento variabile, certo meno raffazzonata, nel tentare un collegamento nobile con la vera commedia al’italiana, restando in casa Risi, opterei per Il sorpasso.
A parte l’andamento on the road con spider, appare evidente come Ruggero ricordi Bruno – Gassman, anche nel romanesco un po’ artificioso, rappresentante dell’ Italia in piena euforia da boom economico, archetipo, appunto, di tanti odierni cialtroni, smargiasso, esibizionista ed irresponsabile, che vede il giovane Roberto- Trintignant, insicuro ed impacciato, come un perdente in partenza, in una società che già punta sull’apparenza e guarda con diffidenza al “diverso”.
Se però l’opera di Risi suona ancora come un apologo metaforico e lungimirante, Mandelli e Biggio non riescono ad andare oltre un’amara constatazione, dai toni spesso assolutori, compiaciuti e compiacenti, di un’ involutiva evoluzione, sottolineando, consapevolmente o meno, il vuoto intorno a farsi come unico punto di contatto cinema-realtà: non è un complimento, ma una triste e personale considerazione che mi son sforzato di far venire fuori come finale di questa riflessione.
Tweet