R Recensione

8/10

Guardie E Ladri regia di Steno Mario Monicelli

Commedia
recensione di Antonio Falcone

Foro romano, secondo dopoguerra:due ladruncoli, Ferdinando Esposito (Totò) ed Amilcare (Aldo Giuffrè), tirano a campare organizzando piccoli furti e truffe, come proporre la classica patacca ad un turista americano (Williams Tubbs), il quale, scoperto il raggiro, cerca invano di inseguirli. Tentano poi di approfittare della distribuzione di pacchi dono da parte di una associazione benefica, ma il benefattore è proprio l'americano truffato, che riconosce Esposito. Inizia così un lungo inseguimento, in cui è coinvolto il brigadiere Bottoni (Aldo Fabrizi), dapprima in auto e poi a piedi attraverso la campagna romana, al termine del quale il ladro è arrestato, ma riesce scaltramente a fuggire. Bottoni  viene sospeso dal servizio e rischia di perdere il posto, a meno che, con mezzi propri, entro tre mesi, non riesca a riacciuffare il furfante. Inizia le ricerche, in borghese, ne individua l'abitazione e cerca di avvicinare la famiglia, fino a quando i rispettivi componenti non stringeranno amicizia …

Diretto da Steno e Mario Monicelli, autori anche della sceneggiatura (insieme a Vitaliano Brancati, Aldo Fabrizi, Ennio Flaiano, Ruggero Maccari), Guardie e ladri rappresenta un passo importante nell’ambito della cinematografia italiana, fra i primi esempi di un graduale passaggio dagli stilemi neorealistici a quelli propri della commedia all’italiana: l’attenzione verso le problematiche sociali è sempre presente ma volge alla satira, i cui strali vengono attutiti dallo scudo della comicità, per quanto amara. Si tende quindi a visualizzare la realtà, le problematiche ad essa inerenti, senza però trasmutarla, ricorrendo ad un particolare mix d’ironia, spunti riflessivi, intimistici, cui vanno ad aggiungersi un sentore malinconico ed  un tocco di bonario cinismo. Mettendo da parte il concetto di comico legato alla farsa, ai canoni dell’avanspettacolo, scaturente dai lazzi di attori-marionette, gag, calcolati o improvvisati giochi di parole, gli si conferisce valida consistenza cinematografica in virtù di  trovate umoristiche ben definite.

Quest’ultime, pur se volgenti ancora nella macchietta, trovano sempre le basi su un solido lavoro di scrittura, rinnovando la tradizione delle maschere della Commedia dell’Arte, che prevede nel suo repertorio anche il senso del tragico. La descritta graduale trasformazione, al cui interno trovano posto anche pellicole volte ad una piega più sentimentale (il cosiddetto neorealismo rosa) o intrise di toni favolistici, in Guardie e ladri viene, forse non a caso, rappresentata da due grandi artisti quali Fabrizi e Totò, entrambi provenienti dal mondo della rivista: se il primo aveva già dimostrato di poter spaziare anche in ruoli drammatici (la toccante, vibrante, interpretazione di don Pietro in Roma città aperta, Roberto Rossellini, 1946) e vantava anche esperienze in qualità di sceneggiatore e regista, il secondo non era del tutto soddisfatto di quanto finora il cinema gli aveva offerto e qui ha infatti la possibilità, sfruttata a pieno, di delineare un personaggio a tutto tondo, capace tanto di ridere quanto di piangere sulle proprie disgrazie.

Il principe della risata si dimostra infatti capace di mitigare la sua innata, prorompente, vis comica virando verso  una soffusa malinconia dai toni chapliniani e la non comune capacità espressiva, mutuata attraverso ferme direttive registiche, è ora volta verso una comicità più realistica, meno surreale, ed abbandona gradualmente, dall’ingresso in scena sfumando man mano nelle toccanti sequenze conclusive, le vesti della scatenata marionetta che affronta la realtà a colpi di un folle nonsense, un po' come Pinocchio che lascia il suo corpo di legno per divenire un bimbo assennato. Il tutto reso possibile, come già scritto, da un pregiato lavoro di cesellatura messo in atto dal team di sceneggiatori, che suddivide l’incedere narrativo in tre parti: dapprima la presentazione dei due protagonisti, il loro primo incontro-scontro, giocato classicamente sulle diverse caratteristiche fisiche e caratteriali, ponendo man mano le possibilità di un reciproco punto di contatto fra ladro e guardia (la pausa durante l’inseguimento attraverso le campagne romane, girata dal vero, il colloquio in trattoria).

È qui che Totò, per quanto più misurato, dà vita ai consueti giochi espressivi e verbali (indimenticabili le sequenze in cui inscena malanni vari, dalla tubercolosi al risolutivo attacco di colite), mentre Fabrizi, lungi dall’assecondarlo, gli tiene testa, replicando con l’impareggiabile alternanza fra modi burberi e bonomia.  Tale avvicendamento è anche espresso negli splendidi duetti con Ave Ninchi, nel ruolo della signora Bottoni. Poi, dopo la fuga di Esposito, assistiamo alle loro avventure in parallelo, ecco stagliarsi sullo sfondo la conoscenza  fra i membri delle reciproche famiglie e il progressivo attenuarsi dello stato di necessità inizialmente prospettato dal brigadiere, con tanto di affiatamento tra i vari componenti. Infine eccoli di nuovo insieme, la guardia ha ritrovato il ladro fuggiasco, la narrazione prende una piega più malinconica e realistica, ora i due sono l’uno di fronte all’altro, a rimarcare i rispettivi ruoli e le reciproche difficoltà.

Entrambi, infatti, si riconoscono poveri figli di un'Italia postbellica sulla via di una lontana ricostruzione, gli stessi problemi a “tirare avanti”, con la sola differenza che Bottoni rappresenta l'ordine costituito e deve compiere il suo dovere, anche se ora appare indeciso, un dialogo chiarificatore che avviene nel sottoscala del palazzo dove risiede la famiglia Esposito: una scena in cui risalta la fotografia in bianco e nero di Mario Bava, che ne sottolinea i toni più intensi e drammatici, sfruttando l’alternanza fra luce e buio nell’offrire un’ulteriore caratterizzazione dolente ed intimistica, come già fatto notare da molti critici. E così, ormai più amici che rivali, una solidarietà non ben accolta dalla censura dell’epoca, si incammineranno verso la prigione, per i familiari Esposito starà via due, tre mesi, un viaggio di lavoro, procurato ovviamente dal benefattore Bottoni, il quale farà di tutto per aiutarli durante l’assenza del capofamiglia.

 Un film a tutt’oggi pregevole, che si (ri)vede con immutato piacere, magari, come è capitato allo scrivente, e credo a molti di voi, anticipandone ad ogni visione situazioni e battute, ammirandone sempre la capacità di coniugare riso e riflessione, restando  ammaliati dal forte senso di umanità che sprigiona, rimarcandone la sua validità, acquisita nel tempo, di documento storico e sociologico. Da ricordare anche, a testimoniare l’estrema cura nella realizzazione complessiva,  il caratteristico tema musicale di Alessandro Cicognini, dall’incedere particolarmente incalzante e idoneo a caratterizzare alcune sequenze prive di dialoghi, integrandosi nel fluire del racconto senza soverchiarlo, e  le buone interpretazioni offerte da allora giovani interpreti quali Rossana Podestà e Carlo delle Piane, rispettivamente prole di Bottoni ed Esposito. Premio per la miglior sceneggiatura al V Festival di Cannes (1952) e Nastro d'Argento a Totò come miglior attore protagonista.

 

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