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6/10

Il Peggior Natale Della Mia Vita regia di Alessandro Genovesi

Commedia Italiana
recensione di Antonio Falcone

Paolo (Fabio De Luigi), giuggiolone sciamannato, novello sposo di Margherita (Cristiana Capotondi), in dolce attesa di un bebè, è alla guida di una microcar arrancante intorno le pendici del Monte Rosa, diretto al castello di Alberto Caccia (Diego Abatantuono), dove è atteso dalla consorte  e dai genitori di lei, Giorgio (Antonio Catania) e Clara (Anna Bonaiuto, subentrata a Monica Guerritore), invitati a trascorrere il Natale nella lussuosa dimora. Ma non tutto andrà per il verso giusto, anzi il cataclisma si vede dal mattino, parafrasando un vecchio adagio, e il nostro si prodigherà al riguardo, suscitando ire e crisi isteriche d’ordinanza nei tre giorni precedenti la vigilia.

Il peggior Natale della mia vita, subitaneo sequel de La peggior settimana della mia vita, 2011, sempre diretto da Alessandro Genovesi, anche sceneggiatore insieme a Fabio De Luigi, ne ripropone identici stilemi ed  eguali situazioni, con la variante di qualche mutazione nel cast, unita ad una regia in certo qual modo più attenta e curata. Un’ovvia operazione d’assalto al botteghino, dietro il paravento della sufficiente gradevolezza d’insieme, anche se ritengo volgare, tanto quanto l’uso di una comicità becera e scatologica, prendere per i fondelli gli spettatori con un film fiacco ed ectoplasmatico, che cavalca il déjà-vu come tratto distintivo, in definitiva più adatto, nella sua resa complessiva in odor di serializzazione, al piccolo schermo, dal quale d’altronde deriva l’opera ispiratrice, una sit-com trasmessa dalla rete inglese BBC.

Sempre propenso ad abbracciare diversi stili, tra cringe (la commedia giocata sull’imbarazzo che si viene a creare in seguito a determinate situazioni)  e sophisticated comedy, Genovesi fatica a trovare un convinto equilibrio, più di sceneggiatura che registico. La narrazione risulta inframmezzata da troppe gag recidive (una per tutte, l’uccisione dell’amata cocorita di Alberto, come il carlino finito in betoniera del primo film), in sospensione fra lo slapstick delle vecchie comiche e la ripetitività da cartone animato, alla lunga stancante e mai veramente convincente. Gli attori, del resto, non riescono a  destreggiarsi  a dovere: De Luigi, solita faccia da bimbo sorpreso con le dita nella marmellata, appare più stranito che propenso ad abbracciare il surreale delle varie situazioni,  gli fa degna compagnia una Capotondi ancora in lotta col suo candore da Biancaneve, mentre Abatantuono e Catania (per non parlare della Bonaiuto), risultano sin troppo sottotono, limitandosi, rispettivamente, al minimo sindacale della bonomia piaciona e dell’occhio assassino.

Le situazioni veramente comiche si riducono a qualche ameno siparietto (la morte e resurrezione di Alberto, con il duo Ale, visagista, e Franz, becchino, in un’impresa di pompe funebri, le apparizioni del domestico Jimpa/Dino Abbrescia), destinato all’oblio, senza mai riuscire ad approfondire il lieve accenno satirico-grottesco rivolto a certi ambienti upper class in salsa nostrana (la mancata incisività della figura d’Alberto o di sua figlia Benedetta, annoiata ed isterica, interpretata da Laura Chiatti). Non mancano trovate di dubbio gusto, e non mi riferisco all’ esternazione fisiologica sul tacchino della vigilia (gag vecchia come il cucco), ma alla scena in cui assistiamo, in montaggio alternato, alle doglie di Margherita e all’esibizione canora di Dino/Andrea Mingardi, babbo di Paolo, insieme  ad una garrula bimbetta reduce da un talent show televisivo: in un sol colpo sono riusciti a rendermi odiosi i canti natalizi della mia infanzia e a farmi visualizzare un benvenuto intervento di Erode con i suoi sgherri.

Certo, facendo fede al titolo, al peggio non vi è mai fine e giunti al fondo c’è sempre chi continuerà a scavare, per cui, attendiamoci una calendarizzazione cinematografica di varie festività: Capodanno da tregenda, Un’Epifania da dimenticarePasqua nefastaFerragosto tremebondo, Un tranquillo primo novembre di paura, crogiolandosi ancora una volta tra medietà e mediocrità, in lieta alternanza, come inedita cifra stilistica.

 

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