R Recensione

8/10

Il Mio Vicino Totoro regia di Hayao Miyazaki

Animazione
recensione di Fabio Secchi Frau

Anni cinquanta. Le sorelline Satsuki e Mei (la prima di 11 anni e la seconda di 4) si stanno trasferendo col padre da lì a Matsu no Gô, villaggio di campagna. Il trasferimento serve per andare a vivere più vicini alla loro mamma che è ricoverata in ospedale. Inizia così il loro viaggio alla scoperta di un mondo nuovo, ma soprattutto alla scoperta della natura.

  Pollice in alto totale. Incassi sostanziosi in patria, un passaggio tra le palme e gli Osanna del pubblico mondiale odierno. La meglio critica affascinata, anche se le sale italiane rimangono semivuote. Un piccolo gioiello che qui non è ancora del tutto apprezzato come meriterebbe.

  Sembra che quel genio di Miyazaki abbia messo tutto se stesso dentro questa pellicola, in un solo secco colpo, confermandosi il genio dell’animazione giapponese.

  La verità è che ci ha inserito dentro solo la sua infanzia. Dietro la storia delle due piccole sorelle che sono costrette a trasferirsi in campagna con il padre, per stare più vicine all’ospedale dove la loro madre è ricoverata per una grave malattia, infatti, c’è la sua vita da bambino. E, secondo i più ben informati, è suo persino quello sbirciare dal buco nel fondo di un secchio!

  Il mio vicino Totoro non fallisce. È la pietra miliare della cinematografia del genere e ha lo stesso peso storico de La sirenetta di Walt Disney, perché sancisce la centralità dei buoni sentimenti umani nel cinema d’animazione.

  Miyazaki (usando i bambini) parla di sogni, di natura, di morte, di maternità e familismo salvifico. Lo fa con una summa di linguaggio introspettivo e mitologie (una retrospettiva a cuore aperto che va dal rispetto shintoista per l’ambiente e per l’agricoltura a La leggenda del serpente bianco di Taiji Yabushita e Hiroshi Okawa, passando per Kimba il Leone bianco di Tezuka e “Il giardino di mezzanotte” di Pearce e a suo modo raccoglie i frutti degli anni passati all’interno del club universitario Circolo di studi sulla letteratura per l’infanzia), fra pregevoli fondali dai colori vivaci, ottime caratterizzazioni di personaggi piccoli e grandi (Mei con la sua personalità lunatica che esprime gioia e rabbia, Satsuki che si sente responsabilizzata dalla mancanza della madre, ma soprattutto Totoro, l’effimera e misteriosa creatura che suscita in loro paura e sorpresa), per sottolineare come nessuna alta definizione e nessun effetto speciale potranno mai sostituire elementi e temi classici dell’intrattenimento infantile. Andando contro i più maturi gusti, che guardavano con timore all’unico film Disney dotato di elementi dark come Taron e la pentola magica o sessuali come Heavy Metal di Bakshi, per porsi sulla scia dell’animazione tradizionale di altri grandi predecessori poi diventati a pieno titolo “maestri” come il poco conosciuto Le 13 fatiche di Ercolino o l’incompreso Il gatto con gli stivali (il primo, apripista negli anni della primigenia nascita dell’animazione per bambini; il secondo, focolaio di alto artigianato).

  Miyazaki non ridisegna il cinema, non lo può più fare, ma spinge impercettibilmente in avanti il nostro immaginario, conscio di farlo. Con pezzi di bravura sbalorditivi (la realizzazione della pioggia nella fermata d’autobus) o creative trovate di sintassi (l’entrata nella tana di Totoro o il gatto-bus: roba che se l’avesse fatta Disney l’avrebbero ricoperto di Oscar), eludendo paradossalmente sempre l’idea stessa e pregiudiziale dell’”anime”. È un lavoro coerente, preciso e impressionante anche per simbolismo nascosto e onirico che, a furia di guardarlo e di riguardarlo, è in grado di far scoprire sempre qualche nuovo dettaglio sia esso umoristico, che artistico, che drammatico.

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