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9/10

Sognare è Vivere regia di Natalie Portman

Biografico
recensione di Leda Mariani

Sognare è Vivere è basato sui ricordi di Amos Oz, cresciuto a Gerusalemme negli anni precedenti la nascita dello Stato di Israele con i suoi genitori: il padre Arieh, studioso ed intellettuale, e la madre Fania, sognatrice e poetica. La sua è una delle tante famiglie ebree scappate dall’Europa in Palestina negli anni tra il 1930 e il 1940, per sfuggire alle persecuzioni naziste. Il padre, Arieh, è cautamente ottimista nei confronti del futuro, mentre Fania desidera molto di più. Dopo la paura della guerra e della fuga, la noia della quotidianità opprime il suo animo. Infelice della vita matrimoniale, ed intellettualmente soffocata, per rallegrare le sue giornate e divertire suo figlio Amos, di dieci anni, Fania inventa storie di avventure e di viaggi misteriosi. Amos è completamente affascinato quando la madre gli legge poesie, gli spiega le parole e la lingua, in un modo che avrebbe poi influenzato la sua scrittura e la sua intera vita. mostra spoiler

Quando l’indipendenza non porta il rinnovato senso dell’esistenza in cui Fania aveva sperato, la donna scivola nella solitudine e nella depressione. Incapace di aiutarla, Amos deve imparare a dirle addio prima del tempo, e mentre assiste alla nascita di una nazione, è costretto ad affrontare un suo personale nuovo inizio.

La nascita di uno scrittore (e di una regista)

Prima di scrivere di questo film ho indugiato a lungo, perché mi ha davvero impressionata. Come esordio, alla sceneggiatura e alla regia, della già bravissima - come attrice - Natalie Portman, mi è parso d’una profondità disarmante.

Tratto dal best seller internazionale Una storia di amore e di tenebra, scritto dall’israeliano Amos Oz nel 2004, ed edito in Italia da Feltrinelli, è un film molto elegante, con una regia sicura e sorprendente. La Portman ha scelto una storia matura e difficile… complessa da immaginare, da raccontare, anche solo da esprimere come concetto. E ci è riuscita. Ha dato vita ad un film che, adagiato su parte della storia del popolo ebraico in Israele e nella Gerusalemme nel dopoguerra mondiale, riesce a parlare del malessere interiore, ed esistenziale, che scaturisce dalla situazione del migrante. Valorizzando la parola e i sentimenti di Oz, la Portman è riuscita a trattare di quel malessere esistenziale dell’uomo, che porta alla guerra, che è causa dei conflitti e di tutto il disagio che poi continua a scorrere nelle vene dei sopravvissuti. Quella malinconia romantica che i figli e i nipoti di ogni profugo scrutano nello sguardo dei loro parenti, e che ha portato un’infinità di loro, seppur sopravvissuti, ad ammalarsi di malinconia, come Primo Levi, come tante persone che ho potuto conoscere, inclusi i miei nonni. L’umore velenoso della guerra: la profonda cicatrice; che entra dentro, scorre nel sangue e che si trasmette, di generazione in generazione, come nei territori balcanici, come in tutti i luoghi da sempre scossi da continui conflitti, che sovrappongono una tossicità all’altra, in un circolo vizioso apparentemente senza fine. Un veleno che crea una profonda ombra in chi sopravvive e resta, che come Amos, e come il popolo ebraico in generale, legge il futuro attraverso il passato, come fanno le persone anziane, o le antiche civiltà, anche nella mentre di un bambino di 10 anni. Un film insomma che prima di ogni altra cosa racconta la nascita di uno scrittore, sulla scia di un vuoto lasciato da sua madre, che egli riempie con parole e storie. Un romanzo di formazione, ma talmente stratificato e profondo, da risultare di difficile descrizione. Una pellicola che è prima di tutto storia d’amore… per una lingua, un paese, un popolo, e naturalmente, di Oz nei confronti di sua madre.

La Portman ha deciso di trasformare il romanzo in film, non appena ne ha terminato la lettura. Di origini ebree, la regista ha trovato le vicende raccontate nel libro, ma soprattutto il modo in cui vengono espresse, in maniera <<commuovente e meravigliosamente scritta>>, assolutamente interessanti. << Ho sentito tante storie sui miei nonni e sui loro rapporti con i libri, sulla loro passione per la cultura e per le lingue, per l’Europa e per Israele. Il libro mi era familiare, ed ero molto interessata ad approfondirne i temi>>. Una storia molto israeliana, ma anche e soprattutto un racconto di emigrazione, che parla apertamente a tutte le culture. La vicenda narrata tratta dell’idealizzazione dei luoghi in cui ci si deve trasferire, mentre si è nella propria terra, e dell’immaginario che si sviluppa attorno a quest’ultima, quando si è lontani. <<Fania da piccola, a Rovno, si culla in sogni di arte, di sionismo, di letteratura, ed ha una visione romantica del mondo. Poi la vediamo come giovane madre in Palestina, mentre comincia a risentire del peso della storia e della situazione politica. I suoi errori, il matrimonio, le occupazioni femminili, la frustrazione delle sue aspirazioni artistiche… l’insieme di queste cose la trascina in un vortice nel quale sprofonda, mentre noi assistiamo a questa metamorfosi…Fania legge letteratura russa, Céchov e Tolstoj, che le trasmette una forma di desiderio molto passionale, alla ricerca del perduto amore, ed in balia di una profonda nostalgia>>.

La regista ha dovuto scrivere anche la sceneggiatura del film, che le produzioni cinematografiche non le avrebbero permesso di realizzare, se non ne fosse stata protagonista a livello recitativo e se non l’avesse scritto lei. <<Pensavo che avrei seguito solo la regia. Avevo ventisei anni quando ho cominciato a lavorare a questo progetto, e Fania è certamente una donna molto più matura. Ma non avrei potuto ottenere il denaro necessario alla realizzazione del film, se non avessi interpretato il personaggio…>>.

Siamo di fronte ad un’opera che sa raccontare in maniera esemplare la natura del “male di vivere”. Quel sottile confine, che a volte si spezza, tra esaurimento nervoso e schizofrenia, che spesso viene riconosciuto solo da chi l’ha provato da vicino, e che come un serpente striscia nelle nostre anime, nel momento di maggior debolezza, quando i sogni si infrangono contro la realtà, per farci sedurre dall’idea della morte: puro istinto, anche quello, al quale siamo sottoposti nelle nostre esistenze, mentre continuamente ci troviamo a gestire la bilancia tra la vita e la morte. Per questo “sognare è vivere”, perché un sogno realizzato è la fine di qualunque spinta vitale, e perché come ben sappiamo, la vita è proprio ciò che si sperimenta mentre si procede verso qualcosa. Il punto di vista privilegiato sulla Storia, che il film mantiene, è quello di un uomo che racconta a quell’età in cui potrebbe essere il padre della propria madre, e che guarda al passato con simpatia e comprensione: un punto di vista molto particolare, amplificato dal fatto che da bambino Amos si fosse già preso cura di lei, mentre da uomo adulto conserva questa memoria, guardando alla madre con gli stessi occhi, ma immerso nel passato, così come nel presente.

Non si tratta della lineare ricostruzione di un frammento della Storia di Israele, ma di un lampante racconto esistenziale. Il film è stato girato interamente a Gerusalemme e le riprese sono durate sei mesi. La post-produzione è stata curata fuori Parigi e a Los Angeles, mentre il suono a Londra. Una delle scene principali del film è quella della dichiarazione della Costituzione dello Stato e la Portman ha raccontato di aver incontrato e parlato con alcune persone che erano a Gerusalemme in quella notte del 1948. <<Una situazione assurda>>, racconta: <<la dichiarazione dello Stato era la cosa più straordinaria che potesse accadere in quel momento e si trasformò in qualcosa di orribile: si impugnarono le armi e la guerra ebbe inizio>>. Il personaggio del Pioniere, nel film, è la curiosa idealizzazione di Israele: uno Stato mitologico, la leggenda con cui sono cresciute generazioni di ebrei. Quest’uomo metaforico e ideale, tuttavia, nel racconto delude ed abbandona la sua terra “ritrovata”: perdere questa mitologia romantica, può spezzare il cuore, ed e ciò che avviene in Fania.

La pellicola è fortemente valorizzata dalla recitazione di tutti gli attori protagonisti, ed in particolare del piccolo Amir Tessler, incredibile bambino dotato di saggezza e maturità, esattamente come Oz da giovane, (che aveva una voce matura anche da piccolo), capace di dire cose che difficilmente un ragazzino pronuncerebbe. Un bimbo davvero speciale, secondo la Portman, capace di porre domande intelligenti e di dare suggerimenti opportuni, anche sulla resa del personaggio di Amos. La stessa cosa vale per Gilad Kahana nel ruolo di Arieh, dato che l’attore è uomo di parola, <<che ha cuore e lingua: lui stesso scrittore, poeta, musicista, ed è diventato il suo personaggio con un’adesione totale, approfondendo, e comportandosi da vero professionista>>. Si può dire che a livello di direzione attoriale la Portman abbia svolto un ottimo lavoro: dirigere sé stessi è già abbastanza faticoso, ma lei ha gestito anche un bambino di lingua straniera e molti altri attori, inseguendo un’idea precisa di questo film, che corrisponde anche ad un modo molto netto di guardare al mondo.

Sognare è Vivere riporta alla mente la trasmissione orale del sapere e l’importanza della parola. Quella meravigliosa forma di comunicazione che possiamo utilizzare anche oggi (forse ancora per poco, se continuiamo a svuotarla di significato), nell’infinità di aneddoti che raccontano le nostre nonne, o nelle piccole grandi testimonianze di luoghi, anche in Italia, che ancora comunicano la loro coralità. <<La prima cosa che mi ha attratto è stata la storia della loro lingua>>, ha dichiarato Natalie, <<Un risultato eccezionale di Israele è stato quello di mantenere la lingua ebraica viva per secoli, quando era linguaggio religioso, e non parlato. È affascinante pensare che ai tempi della Bibbia riflettevano sulla connessione tra le radici comuni delle parole, cosa che consente di apprezzare di più la poesia e l’anima dell’uomo, che è esistita così a lungo>>. E in effetti, la lingua è in pratica uno dei personaggi di questo film.

Dobbiamo ricordare che la Portman è nata e vissuta in Israele fino a quando aveva tre anni, insieme a suo padre, israeliano, e alla madre americana. <<I miei genitori mi hanno mandato in una scuola ebraica fino ai miei tredici anni. Mezza giornata era in ebraico e l’altra mezza in inglese, così ho potuto leggere e scrivere in ebraico, ma non lo palavo benissimo, perché ci concentravamo soprattutto su lettura e scrittura. Poi mi sono nuovamente trasferita in Israele quando avevo venticinque anni per un corso di specializzazione e ho imparato a parlarlo bene. L’ebraico è la mia lingua madre, ma per me rimane un linguaggio strana, perché non è quello con cui sono cresciuta>>. <<Alla fine nel film sembro straniera, ma non americana, cosa che funziona per il personaggio: è stato divertente imparare i trucchi per parlare come un’israeliana>>.

<<Sono cresciuta in mezzo a storie di famiglia: come i miei genitori si sono conosciuti, come i nonni sono emigrati, come sono venuta al mondo>>, come spesso accade a figli e nipoti di profughi, che si portano dentro la loro storia, sperando che possa vivere, almeno ancora per un po’, nella loro prole. In fondo, ogni identità culturale è generata da parti di verità e di leggenda, che si mescolano assieme, rendendoci un po’ stranieri in ogni luogo.

Il film è purtroppo fortemente penalizzato da un doppiaggio brutto ed inutile: uno di quei casi che fanno pensare a quanto sarebbe meglio eliminarlo totalmente. La voce di ogni film dovrebbe arrivarci diretta, in tutto il suo suono e nella sua specificità, visto che ormai tutti sappiamo leggere, e che si possono tranquillamente usare i sottotitoli. Perché la parola ha senso anche nella sua pronuncia: un suono specifico restituisce senso specifico. I vocaboli sono cultura, materia viva, soprattutto per le civiltà araba ed ebraica, e vanno fatti risuonare, vibrare, vivere. In questo la Portman è stata incredibilmente brava, calzando in maniera perfetta l’ombra di Oz.

Bellissima anche la colonna sonora di Nicholas Britell, compositore pluripremiato, pianista e produttore: polivalente, multiculturale, drammatizzante, ed ossessiva al momento giusto. Quasi ciclica, come le fasi della vita e della Natura.

Questo è un film molto romantico, ma ovviamente non in senso amoroso. Richiama i ritmi e gli stilemi del romanzo e della narrativa dei primi del Novecento (quella russa in particolare).  Una storia che racconta il senso stesso della narrazione, la profonda utilità, e vacuità, del racconto, così come della vita. Noi non sappiamo nulla in fondo, <<non sapremo mai niente di niente>>, come giustamente ci ricorda il personaggio di Fania: viviamo e basta, e dobbiamo accontentarci di esistere. Sognare è Vivere è un film che dà respiro alla parola, che sa mantenere il ritmo della riflessione romanzata, della lettura insomma, del racconto, ma senza annoiare mai: lasciando un’apertura evocativa che rimanda più alla musica e alla letteratura, che al cinema stesso.

La fotografia è estremamente elegante, mai “glam”, e gioca su saturazione e desaturazione, per bilanciare le fasi del dramma e quelle esistenziali. Le inquadrature sono caratterizzate da un movimento minimo e costante, quasi fluttuante, che fa gradualmente aumentare tensione, paura, e sospetto. La Portman e Idziak, che lei stima moltissimo, hanno discusso a lungo su come lei volesse che il film sembrasse realistico ed onirico allo stesso tempo, e che riuscisse a mettere in mostra un mondo privato di colori, quasi da una prospettiva documentaristica. Per cui Gerusalemme assume i toni del verde e del blu, mentre le storie delle vicende famigliari si tingono di colori accesi. Le tonalità risultano molto intense quando raffigurano l’idealizzazione romantica del desiderio di un Europa che non esiste: quella dell’immaginazione di Fania, ricca di colori. Poi si torna alla realtà e si incontra la pietra di Gerusalemme, con la sua forte luminosità e il suo caratteristico pallore. Slawomir Idziak è un direttore della fotografia importante e pluripremiato, che ha lavorato per gran parte della sua carriera con Krzysztof Kieslowski: ha curato la fotografia di film come La doppia vita di Veronica, Tre colori: Film Blu, e possiede un occhio capace di vedere il mondo dal punto di vista di una donna. Lavora come un pittore, e ha fatto scelte importanti per il film. Idziak ha di recente contribuito a creare il sito web dello studio cinematografico virtuale Film Spring Open, che consente agli utenti di creare film online e di presentare il loro lavoro ad un pubblico mondiale.

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