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7/10

La famiglia Fang regia di Jason Bateman

Drammatico
recensione di Fabio Secchi Frau

Caleb e Camilla Fang sono performer le cui creazioni scioccano il pubblico e deliziano gli appassionati d'arte. Protagonisti sono i loro figli, pedine fondamentali delle loro opere provocatorie spesso al limite tra il genio e la follia. A causa di queste esperienze, Annie (Nicole Kidman) e Baxter (Jason Bateman) ormai adulti si sono allontanati dai genitori, e, seppur a distanza, conducono esistenze parallele e altamente problematiche. I fratelli sono costretti a tornare a casa dai loro eccentrici genitori quando, improvvisamente, scompaiono nel nulla. La polizia teme il peggio ma Annie è convinta che si tratti di una nuova performance e che Caleb e Camilla abbiano finto la propria morte per dare vita all'ennesima, bizzarra, opera d'arte.

  Di famiglia si soffre, in America. Uno schema di vicendevoli dispiaceri (dati e ricevuti) tra genitori e figli potenzialmente in grado di mantenersi in equilibrio sino alla fine, nonostante gli elementi di crisi.

  Potenzialmente, però!

  Perché se un piccolo tassello viene aggiunto o tolto, questo microcosmo di psicologie e piccole cattiverie e delusioni, in cerca di un soffio di autenticità, decade miseramente, portandosi dietro anche le fondamenta che si credevano indistruttibili e ferme nel tempo.

  Diretto dal co-protagonista Jason Bateman, che ha trasposto sul grande schermo una sceneggiatura di David Lindsay-Abaire (il drammaturgo dietro Rabbit Hole) basata sul romanzo omonimo di Kevin Wilson, La famiglia Fang offre proprio il suddetto microcosmo di nervi scoperti, scosso continuamente dal risentimento generazionale, dai crolli di carriere, dalle fasi di stallo o, ancora peggio, dall’incapacità di trovare la propria strada venendo a patti con mente e cuore.

  Il grosso del lavoro viene però da Wilson, e non da Lindsay-Abaire. Senza il libro, il viaggio dentro i Fang non sarebbe stato così profondo e non avrebbe avuto un finale così eretto nell’affrancamento dell’individuo. Ma è pur sempre giusto ammettere che ci troviamo di fronte a una scrittura cinematografica che è una bilanciata sfumatura cromatica tra comedy e drama, impastata nell’inquietante colore del giallo.

  Lo script, infatti, è a tratti divertente, ma è soprattutto agrodolce, struggente e intelligente (e quest’ultimo non è poco di questi tempi!). Staccandosi dai luoghi comuni del genere della famiglia disfunzionale, scolpisce la stessa al centro della super-trafficata e sacra Arte, perno intorno al quale ruota l’esistenza dei Fang, sezionando la ricerca dell’umanità e della verità dei figli (che parte fin dall’infanzia) nella ricerca fisica dei loro genitori, tra trappole, discussioni, eccentricità, ricordi e attese.

  Ed è appunto l’Arte il quinto e più importante membro della famiglia. L’arte e la sua questione artistica con la faticosa domanda da risolvere: è da considerarsi Arte il messaggio che l’artista cerca di inviare al pubblico o la vera reazione che il pubblico ha di fronte al messaggio inviato dall’artista?

  Abbiamo, quindi, una strada relativamente nuova per discutere dei temi familiari, che narrativamente avviano come una lunga sessione di terapia prolungata, che tocca il suo apice quando i due protagonisti arrivano al punto di saturazione.

  L’opera seconda di Jason Bateman rivela la derivazione di quest’ultimo alla famiglia sopra le righe del serial Arrested Development - Ti presento i miei, ma senza quella vitalità comica nei dialoghi che lo contraddistingueva. Il che non è necessariamente un male, visto che qui siamo di fronte a una materia totalmente diversa da quella televisiva.

  Sulla sedia del regista, l’attore gioca pulito e affilato, sfruttando visivamente ogni allestimento di scena comica o drammatica che la storia offre per raccontarne i cuori feriti e le ritrovate forze interiori dei due protagonisti.

  Ci troviamo quindi di fronte a un film ben costruito nello stile indie, che si insinua nello spettatore tra racconto e flashback, mostrando l’esistenza di Annie e Baxter e come sulle loro teste sia stata posta l’Arte. Una spada di Damocle che aspettava solo il momento giusto per poter calare e trafiggerli definitivamente.

  Un progetto che sottolinea il talento di Bateman, che non è mai appariscente e mantiene le emozioni del film come dentro un pentolone di cera che bolle e che non aspetta altro che essere usata.

  Il risultato è divertente, toccante e vitale.

  Perfetto il cast che è stato in grado di creare alchimie agitate e frementi. Non si riesce a immaginare una potenza d’arte drammatica e comica che sia pari alla loro o addirittura migliore. I bambini Fang da adulti sono interpretati da Nicole Kidman e dal già citato Bateman che fanno squadra davanti e dietro la cinepresa (se lui si è occupato di regia, produzione e recitazione, lei ha portato i diritti del libro, diventandone poi produttrice e protagonista). La loro recitazione è in grado di mettere in luce tutto il lato provocatorio delle discussioni sui limiti dell’Arte in una dimensione familiare che però ha dimenticato il loro lato umano.

  Al secondo posto, seppur messa leggermente in ombra dalla durata delle scene, una stellare Maryann Plunkett nel ruolo della madre dei due. Con la sua tenerezza, il volto tutt’occhi spalancati e la costruzione di un personaggio che apparentemente è nervi e candore, nelle poche sequenze in cui appare, riesce a sovrastare persino i due Premi Oscar presenti nel film, catturando l’attenzione dello spettatore. La sua controparte giovanile è invece interpretata da Kathryn Hahn, grande amica del regista e altrettanto ottima.

  A chiudere, il bizzarro Christopher Walken che è quell’affascinante perverso di Papà Fang. Un uomo che usa letteralmente i suoi figli per definire la sua identità artistica, non comprendendo la differenza tra creatore di bambini e creatore di opere d’arte. Il suo impegno nel rendere il personaggio di Caleb antipatico riesce pienamente. Ci si sente, infatti, terribilmente scoraggiati quando ci si immedesima nei ragazzi Fang, soprattutto nelle scene di scontro fra loro e lui, in cui è ancora più evidente che parole e azioni usate per mediare e per arrivare alla comprensione delle loro anime al padre sono inefficaci.

  Un plauso va alla fotografia di Ken Seng, che privilegiando le ombre e le tonalità marroni vuole riflettere l’oscurità interiore ed esteriore insita nei due poveri fratelli e delinea a un altro livello di analisi filmografica sulle ragioni e sulle verità emotive.

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