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5/10

Il Grande Gatsby regia di Baz Luhrmann

Drammatico
recensione di Federica Banfi

L'aspirante scrittore Nick Carraway (Tobey Maguire) si trasferisce dal Midwest Americano a New York nella primavera del 1922, epoca di dissolutezza, jazz, contrabbandieri di alcol e azioni in borsa alle stelle. Inseguendo il suo "sogno americano" Nick si trova ad avere come vicino di casa un misterioso milionario e grande organizzatore di feste, Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio) oltre che la cugina Daisy (Carey Mulligan) e il suo donnaiolo marito di sangue blu, Tom Buchanan (Joel Edgerton). Da quel momento Nick viene trascinato nell'affascinante mondo dei "super ricchi", fatto di illusioni, amori e inganni. Nick ne diviene testimone, raccontando una storia d'amore impossibile, sogni incorruttibili e tragedie.

Non è la prima volta che Baz Luhrmann si ripropone di portare sul grande schermo epoche passate adattandole alla sua straripante (ed estremamente egotica) personalità, facendole proprie e rendendo, grazie a fiocchi e lustrini, anche il più grigio vicolo di Verona Beach opulento e sfarzoso: che sia come in Moulin Rouge! la Parigi di fine Ottocento o la New York dei roaring twenties, sono questi i contesti in cui il regista australiano si sente maggiormente a suo agio, circondato da colori accecanti, boa di piume, importanti personalità dalla dubbia moralità, scrittori squattrinati, diamanti, perle e tanto, tanto alcool. Si sarebbe quindi potuto pensare che, proprio grazie alle sue qualità di “trasformista” della scena, la prova Gatsby sarebbe stato un successo; chi meglio di Baz avrebbe potuto ricreare la sfavillante e al contempo misteriosa era del jazz, della quale Francis Scott Fitzgerald fu padrone assoluto, e dar vita a uno dei più intriganti protagonisti della letteratura americana d’inizio secolo?

Di questo adattamento però riesce poco e (quasi) tutte le aspettative rimangono deluse. E soprattutto è in ciò in cui di solito è maestro, nella messa in scena dello sfarzo e della grandiosità delle grandi kermesse, che il regista australiano, che ha sempre fatto della ridondanza il suo marchio di fabbrica, trova il suo tallone d’Achille. In primis per quanto riguarda la messa in scena della sfavillante, caotica e corrotta New York dell’epoca del proibizionismo. Sebbene fino a questo momento il regista sia sempre ben riuscito ad amalgamare con maestria l’ambientazione delle sue opere e i mondi creati dalla sua immaginazione, il risultato di questa sua ultima ricostruzione non convince. Niente a che vedere con la sobria e al contempo estremamente efficace ricostruzione dell’Atlantic City della stessa epoca, portata in scena dalla pluripremiata serie tv Boardwalk Empire, marcata HBO. Luhrmann sceglie di rimanere sì fedele al romanzo, tentando però, senza grandi risultati, di svecchiare il mondo fitzgeraldiano attraverso un turbinio di citazioni pop e sonorità contemporanee. Se l’effetto sperato era perfettamente riuscito nelle sue fatiche precedenti, da menzionare in particolare Moulin Rouge!, in cui hit del passato riuscivano ad amalgamarsi con facilità alle atmosfere bohémienne della Parigi dell’epoca, tra nani, fate verdi e squattrinati suonatori di sitar, in Gatsby lo spettatore si ritrova costretto con grandi difficoltà a digerire una sovrabbondanza di stili e stimoli, che ben poco si adattano all’età del jazz fitzgeraldiana e che alla lunga, se non supportati da un valido approfondimento psicologico e narrativo, rischiano di annoiare, ma, soprattutto, di rendere il poliedrico personaggio di Jay Gatsby poco più di un egocentrico damerino, facendo venir meno una parte fondamentale dell’opera dello scrittore americano, che non si ferma a un turbinio di colori, piume, glitter e alcolici, come Luhrmann (aiutato nella stesura della sceneggiatura dal collega Craig Pearce)invece vorrebbe farci credere.

Inoltre, nonostante il cast di tutto rispetto, le prove attoriali, ad eccezione di quella dell’eponimo protagonista, interpretato dal sempre più grande Leonardo DiCaprio, non soddisfano; Tobey Maguire e il suo occhietto spento non convincono completamente nei panni del naïve, ma al contempo assetato di avventure, Nick Carraway, e allo stesso tempo la Mulligan, seppur abbia dato negli ultimi anni prove di grandi capacità attoriali (assolutamente indimenticabile la sua interpretazione in Ad Education), risulta sottotono, la sua recitazione sovrabbondante di (inutile) pathos e, insieme all’altrettanto poco sfruttata Elizabeth Debicki (su carta una flapper assolutamente perfetta), viene quasi oscurata dalla straripante interpretazione dell’irriconoscibile Isla Fisher nei panni di Myrtle.

«E a me piacciono le grandi feste. Sono così intime. Nelle feste piccole, non c’è intimità». Se davvero, come sostiene Jordan Baker nell’opera di Fitzgerald, le cose stessero così, la trasposizione cinematografica portata in scena da Baz Luhrmann avrebbe potuto condurci con facilità nei meandri dei cuori dei suoi protagonisti, svelandoci mondi interiori a prima vista nascosti da fasti e scintillii. Invece, in quest’occasione, non possiamo far altro che dissentire.

V Voti

Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 6 voti.
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alexmn 6/10
saix91 8/10

C Commenti

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saix91 (ha votato 8 questo film) alle 2:01 del 29 maggio 2013 ha scritto:

Ahahahahahah! Isla Fisher oscurerebbe la Debicki e la Mulligan? Che battuta! Già da questo la tua recensione perde tranquillamente di credibilità...

"...facendo venir meno una parte fondamentale dell’opera dello scrittore americano". Questa frase, poi, è insensata, ed è sulla bocca di molti, purtroppo: insensata, perchè forse sfugge che un FILM non deve avere per forza le stesse intenzioni, non deve seguire per forza le stesse tematiche, non deve possedere per forza lo stesso stile del CARTACEO. Sono due cose diverse, distinte e separate, e l'assoluta fedeltà al romanzo non è prescritta come obbligatoria!

P.s. Poi il "Gatsby-Egocentrico Damerino" vorrei capire dove si vede: semmai è un Gatsby che possiede tanto dei 2 protagonisti maschili di "Romeo + Juliet" e "Moulin Rouge!", e che quindi si concentra e si interessa maggiormente dell'amore per Daisy che non dei suoi affari o del suo essere stato "povero" un tempo. Ma come detto prima, queste sono scelte registiche e di sceneggiatura, che non possono essere criticate dicendo che fanno "venir meno una parte fondamentale dell’opera dello scrittore americano".