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R Recensione

8/10

Come Pietra Paziente regia di Atiq Rahimi

Drammatico
recensione di Pasquale D'Aiello

In una città afghana devastata dalla guerra una donna veglia il marito in stato di incoscienza. Questa condizione di sospensione dei normali rapporti tra uomo e donna diventa l'occasione per una lunga confessione davanti al corpo dell'uomo, a cui rivela la sua vera storia, tutte le violenze subite e i terribili segreti che custodisce. In quella stanza entrerà la guerra che insieme ad altra violenza porterà per la donna anche un'occasione di riscatto.

 

Atiq Rahimi è un afghano cresciuto sin da adolescente nella cultura francese e anche in questo suo secondo lungometraggio manifesta ampiamente la sua internità alla storia culturale europea. Ma questo non gli impedisce di tenere vivo il legame con il paese di origine, incastonato nelle montagne dell'Asia centrale. Una bivalenza già ampiamente evidenziata nel suo primo lavoro, Terra e cenere (2004), che attingeva all'estetica del neorealismo italiano per narrare la distruzione delle guerre afghane. Anche questa nuova storia è ambientata in Afghanistan che continua ad essere martoriato dalle guerre ma questa volta lo sguardo è incentrato sulla condizione femminile. Una denuncia della subalternità delle donne che non vuole solo essere condanna politica di una specifica situazione ma riesce ad elevarsi a monito e metafora generale del rapporto uomo donna. La scena filmica è prevalentemente collocata all'interno di una stanza in cui una giovane sposa veglia sul marito restato privo di conoscenza dopo essere stato colpito al collo da un proiettile, al termine di una banale rissa. Il quasi cadavere del marito rappresenta in modo plastico la cessazione, ancorché occasionale, dell'oppressione che permette alla donna di intraprendere il suo percorso di liberazione che, pur svolto in totale autonomia culturale, necessita del corpo dell'uomo, perché è attraverso i corpi che passa la relazione uomo-donna. E questa dimensione rappresenta anche una fortissima presa di posizione contro ogni mediazione rispetto al dominio maschile, che viene semplicemente annullato. La scelta dell'unità spaziale all'interno di una stanza richiama espressamente la collocazione scenica bergmaniana di Sussurri e grida (1972). E se lì il colore dominante era il rosso che simboleggiava l'interiorità dell'animo qui è l'azzurro che tinge i veli che nascondono i volti delle donne afghane. Nelle scene di esterni la distruzione della città è raccontata attraverso le suggestioni post-apocalittiche di Germania anno zero (1948), manifestando la propria affiliazione stilistica alla lezione neorealistica. La donna approfitta dell'inazione maschile per confessare al suo uomo tutta la propria vita, fatta di abusi e violenze subiti dal padre, dal marito e dall'intera società ma anche di terribili segreti che da sempre risiedono nelle storie delle donne dominate. In questa condizione di sospensione dell'oppressione lei riuscirà a maturare, attraverso la parola, la propria consapevolezza di donna. Ma la parola non sarebbe conclusiva se la realtà non le offrisse la possibilità di praticare anche fisicamente un percorso di emancipazione che non può prescindere dall'esperienza del corpo, ovvero il medesimo luogo e strumento attraverso cui si pratica la repressione. Nelle azioni e nel racconto della giovane sposa emergono spinte di resistenza e di cambiamento che le provengono da una prostituta che appare dotata di maggiore emancipazione. Sebbene in ogni letteratura le prostitute siano spesso connotate da tratti libertari, l'aspetto così spiccatamente costruttivo di questo personaggio ha un'impronta più marcatamente occidentale, risentendo degli influssi freudiani e marcusiani che tendono ad identificare la prassi sessuale come inversamente proporzionale al grado di repressione sociale subita. E' chiaramente una metafora che prescinde da valutazioni politiche più generali e concrete. D'altronde la lettura marcusiana emerge anche nel rapporto tra sessualità e guerra in cui è la stessa prostituta a rivelare il carattere funzionale della repressione sessuale ai fini sociali della guerra. L'idea fondamentale della sceneggiatura da cui origina la messa in scena è potentissima e permette un incipit denso e promettente che offre al regista la possibilità di realizzare un capolavoro che se gli sfugge è solo per la mancanza di un pieno controllo su alcuni sviluppi centrali della storia (e forse anche per un doppiaggio non all'altezza per alcuni personaggi minori). Ma il finale è deflagrante e memorabile, con assonanze sceniche addirittura con il dreyeriano Ordet (1955), che non a caso significa “parola” che è il concetto chiave di questo film. Ed è un finale che segna una netta presa di posizione, rivoluzionaria, senza mediazioni. Il processo di liberazione della donna viene violentemente riconnesso con il conflitto non solo verso l'uomo ma anche, e soprattutto, verso la religione che assurge al più alto simulacro della disuguaglianza e dell'oppressione. Un film coraggioso e affascinante, pieno di cinema, di suggestioni e di idee, imperdibile, specialmente per les cinéphiles più esigenti.

 

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