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8/10

I Gatti Persiani regia di Bahman Ghobadi

Musicale
recensione di Alessandro Pascale

Un ragazzo ed una ragazza, Ashkan e Negar, vogliono poter suonare e creare musica, anche al costo di lasciare l'Iran, il loro paese. Tramite il padre di uno di loro, conoscono Nader, un personaggio molto ben inserito nel mondo musicale sotterraneo di Teheran, che permette loro (e lo spettatore) di conoscere uno spaccato estremamente variegato della musica iraniana, passando dall'indie al folk, dal metal alla musica tradizionale, ma anche dalle feste nelle abitazioni private, dove la musica ha ancora un'altra espressione di sé. Il film mostra le difficoltà che questi ragazzi affrontano, spesso col sorriso sulle labbra, nel confrontarsi con un sistema di autorizzazioni e permessi difficilissimi da ottenere, visti e passaporti per poter fare un concerto all'estero, e tutti i sacrifici e le vie non proprio legali che sono costretti a scegliere.

I Gatti persiani di Bahman Ghobadi è una delle opere più acclamate dell'anno. E vien da dire a ragione, anche se lo si afferma dando voce più al cuore che alla testa. Questo perchè si tratta di un film di protesta, a suo modo politico e ostile al regime teocratico solo fintamente democratico tuttora vigente nel paese. Un regime che nonostante il più o meno condivisibile richiamo alla religione islamica (con tutte le conseguenze che ciò comporta nel legame tra religione e legge, intrico risolto dall'Occidente con la separazione avvenuta nel '700 grazie all'Illuminismo) tende in realtà ad essere assai poco rispondente alle necessità spirituali e teologiche che avrebbe evidenziato Maometto, scadendo invece in assurdi e irrazionali provvedimenti illiberali che degenerano nella peggiore ideologia estremistica e violenta.

Tale è l'atteggiamento di un poliziotto che ferma per strada una coppia di giovani perchè trasporta in macchina una cane che si ritiene essere (senza motivo di fondamento) un randagio, o di un regime che rifiuta di dare autorizzazioni a suonare concerti e pubblicare dischi a qualunque gruppo e artista che suoni un genere-stile musicale estraneo alla cultura persiano-iraniana.

E' questo l'aspetto su cui focalizza l'attenzione Ghobadi, evidenziando le tragiche condizioni in cui si trovano gruppi e artisti spesso talentuosi ma costretti alla semi-clandestinità e al nascondiglio per poter suonare brani alla Strokes, alla Kanye West o in stile Metallica. Manco si parlasse per forza di testi agit-prop vetero-comunisti, quanto solo di note musicali in grado di dare una speranza nell'arte, e forse anche un po' nella vita...

Per chi volesse approfondire l'argomento della vita musicale in Iran (così come in tutti i paesi del Medio Oriente) è da leggere l'eccezionale “Rock the casbah!” di Mark LeVine, ma per un primo sguardo rapido utile a farsi alcune idee basta anche Gatti Persiani: si capirà così quanto sia vitale il circuito underground e alternative di Teheran e quanto sia diffusa e conosciuta la cultura occidentale nel paese, e quale influenza essa abbia sui giovani.

Se il contenuto politico e morale dell'opera è notevole altrettanto bisogna dire dello stile scelto dal regista: soluzioni fotografiche mai banali, anzi sempre ardite e problematiche, cercando di catturare più che complessi sguardi d'insieme dei frammenti, delle porzioni limitate di realtà come le possono cogliere giovani spaventati e dubbiosi come i due protagonisti.

Una regia nervosa quindi, a tratti nevrotica, capace di tagli di scena improvvisi, quasi sempre in narrazione soggettiva libera in spalla, eppure in grado di regalare splendidi momenti di armonia e pace durante le esibizioni musicali dei vari artisti immortalati. Sono questi gli attimi in cui il film si fa più politico e sociale, lasciandosi andare a violenti videoclip in cui viene immortalata non la violenza diretta, ma quella indiretta imposta dal regime: povertà sociale e degrado ambientale troneggiano nelle diapositive che accompagnano le musiche tragiche o rabbiose dei vari artisti. Sono però forse questi i momenti più di maniera dell'opera, che segnano anche una partizione un po' artificiosa e forzata rispetto al resto della narrazione, molto più sciolta e interessante, soprattutto grazie alla capacità di creare personaggi alla Kusturica come quello di Nader, la cui vitalità e dinamicità è uno dei punti di maggiore forza del film.

O forse quest'ultimo è la colonna sonora, la cui bellezza nonostante tutto è ammaliante. Non so, fate voi, in ogni caso è un gran bel vedere (e sentire).

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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alexmn 8/10

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