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8/10

About Elly regia di Asghar Farhadi

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

In Iran un gruppo di amici va in vacanza per qualche giorno in una località costiera, portandosi dietro mogli e bambini. Tra essi però ci sono Ahmad, fresco divorziato che lavora in Germania, e Elly, maestra del figlio di Sepideh, che l'ha invitata per fargli conoscere Ahmad. Un tragico evento inatteso però sconvolgerà ogni possibile progetto...

About Elly è un film iraniano. E questa è la prima notizia. La seconda è che è un film iraniano molto interessante, in grado di affrontare tematiche civili e sociali al limite dell’accettabile per il governo di Ahmadinejad, tanto da risultare di fatto quasi un film politico per la sua carica critica (seconda notizia molto più interessante insomma). Ad essere immortalato con lo stampino è il patto con il diavolo (o con Dio) fatto da un gruppo di famiglie amiche di ceto medio-alto. Trentenni normalissimi in cui è possibile ritrovarsi perfettamente anche per noi Occidentali (tranne ovviamente che per gli imbarazzanti modi di ballare): stessi problemi con i partner, con l’educazione complessa dei figli, stessa voglia di divertirsi e svagarsi nei modi più innocenti e camerateschi possibili, senza esagerare eccessivamente, ma godendo quel tanto da riuscire ad evadere dalla realtà quotidiana.

La differenza in fondo è tutta nel fattore religioso, che pone questi iraniani di oggi ad una situazione assai prossima a quella dei nostri avi di circa sessant’anni fa. Di qui il peso preponderante della morale religiosa, la pudicità voluta dalle stesse donne, rigorosamente addobbate con un velo copri-capelli, ed una serie di usanze e pratiche tradizionali restrittive e per molti versi illiberali. Illiberali nella nostra concezione, ovvio, anche se con tutto il rispetto per il multiculturalismo è difficile non trovare razionalmente ridicolo che una donna fidanzata non possa andare in vacanza da sola assieme a degli amici. Tale è il succo della storia, e da qui partono i tanti problemi che esplodono nella parte centrale del film, quando un evento tragico segna la scomparsa di Elly, l’amica in questione.

L’evento segna lo spartiacque non solo a livello narrativo ma anche stilistico: se è vero che un po’ ovunque Farhadi maneggia con grande abilità la camera a mano, catturando lo spettatore in soggettive ardite e di forte impatto, è altrettanto vero che nella seconda parte dell’opera tale stile si fa più frenetico, nervoso, in linea con il susseguirsi burrascoso degli eventi e degli stati d’animo scombussolati. Nella prima parte invece per una buona mezzora si assiste ad una lunga presentazione di un quadretto pluri-familiare che di primo acchitto può sembrare ridondante e sterile, ma che rivela tutta la sua importanza sulla lunga durata, specie per l’inquadramento psicologico di un piccolo straripante cast. Ne viene fuori un impeccabile dramma da camera tinto di giallo, in cui Farhadi riesce a gestire con uguale maestria le riprese interne e quelle esterne, mostrando una capacità assai poco comune di misurare il limitato spazio.

Onore a Farhadi quindi (peraltro non un novellino, come dimostrano i passati Dancing in the Dust, The Beautiful City, Charshanbe-Soori) e soprattutto alla sua volontà di denunciare un popolo (o forse più nello specifico una classe) che di fronte ai problemi enormi del proprio Paese decide di rinchiudersi nel suo ghetto amicale e familiare, rinunciando non solo a mettere in gioco sé stessi per il bene collettivo, ma perfino a sfidare la sia pur minima convenzione socio-morale pur di difendere i propri interessi, alla faccia della verità e dei sentimenti di un povero innocente. Una lettura quest’ultima forse un po’ limitata del finale, che può invece aprirsi ad un significato più ampio, in cui si evidenzia quanto una sola parola non verificabile empiricamente possa diventare l’ago della bilancia tra l’amore e l’odio, tra il bene e il male, tra il rimpianto affezionato e la captatio memoriae. Una sola parola. Notevole la forza del linguaggio…

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