T Trailer

R Recensione

6/10

Faust regia di Aleksandr Sokurov

Artistico-allegorico
recensione di Alessandro Pascale

Il Dott. Faust è un uomo tormentato che lavora nel suo studio sporco, che somiglia più ad una bettola che non ad un laboratorio di ricerca scientifica. L’incontro con il demonio, che prende le forme di un abominevole vecchio, ed il desiderio che nutre di possedere la giovane Margherita, lo porteranno ad intraprendere un viaggio attraverso il senso stesso dell’esistenza. Il protagonista diventa così un pensatore e un anarchico, un farabutto e un sognatore che desidera spingersi oltre, anche al di là del concetto stesso di “tentazione”.

Faust è uno di quei film che guardi e intanto pensi “è oggettivamente un film fico, però che due palle”. Con tutta la stima che si può avere per Sokurov, noto per la tetralogia comprendente Moloch (1999), Toro (2000) e Il Sole (2005), rispettivamente dedicati alle figure di Hitler, Lenin, Hiroito, che ora vedono la loro conclusione con la rilettura del Faust.

Per capire il nesso tra i tre personaggi storici quest'ultimo occorre leggere la spiegazione data dall'autore: “Io non faccio film sui dittatori, ma faccio film su coloro che hanno mostrato una personalità eccezionale rispetto a tutti gli altri. Essi apparivano come coloro in grado di avere il potere decisionale. Ma la fragilità umana e la passione influenzarono le loro azioni più che la loro condizione e le circostanze. Le qualità umane e il carattere sono più importanti di qualsiasi circostanza storica”.

Personalità eccezionale, potere, passione e carattere sono quindi al centro dell'opera di Sokurov. Di qui la scelta del “moderno” Faust (impersonato da Johannes Zeiler): un medico-dottore-professore alla ricerca del senso della vita (e, perchè no?, dell'origine della realtà terrena), e soprattutto di un senso alla propria vita. Entrato in profonda crisi esistenziale Faust è ormai diventato un essere totalmente incapace di integrarsi nella società, e vive alla bell'e meglio, mantenendo un piglio altezzoso e superiore nei confronti del resto della “plebe”. L'incontro con il diavolo, comparso sotto la forma di un cinico usuraio, avviene per esigenze puramente materiali (denaro) ma presto si allarga a questioni spirituali: il demonio, attraverso dialoghi e conversazioni sconnesse e frammentate, riesce a ridare vigore ed uno scopo al professore, ora inebriato dall'incontro con la bella e giovane Margarethe.

Questo amore che nasce degenera però presto nella maniera più turpe possibile, lasciando libero campo alla peggiore depravazione possibile del Faust, assecondata dal diavolo in maniera benevola e naturale, naturalmente in cambio della sua anima...

La storia d'altronde è nota, e si è perso fin troppo tempo ad enunciarla nel dettaglio. L'opera di Sokurov merita invece altre considerazioni, giacchè si parla pur sempre del film vincitore del Leone d'oro del 68° Festival di Venezia (2011). Un premio probabilmente ottenuto grazia alla “rendita” ottenuta dall'autore, noto anche per un'opera maestosa come Arca russa (2002): un unico piano-sequenza di un'ora e mezza...

Preso di per sé infatti il Faust risulta un'opera eccessivamente intrisa di simbolismo (ai limiti dell'ermetismo), indeciso se scendere nel campo del grottesco, del dramma, del sentimentale, del gotico o del surrealismo. Lo stacco totale del finale dal resto della narrazione appare un taglio troppo netto, eccessivamente sconnesso sia a livello narrativo che visivo.

Simili osservazioni si potrebbero fare sulla narrazione: nervosa, frammentata, spesso inconcludente, priva di decise variazioni di timbro. Si rimane in un limbo in cui si viene accompagnati da un esile filo di eventi che trascinano a fatica il Faust e il suo diabolico compare, storditi da chiacchiere e atteggiamenti corporali costantemente ai limiti del grottesco e del ridicolo. Eppure nonostante gli sbadigli si rimane affascinati dal pantano continuo dell'azione: nel paesino e negli ambienti in cui è svolta la vicenda tutto sembra sudicio e lurido, e conseguentemente non si riesce a nascondere una certa affascinata repulsione e ribrezzo per tutti i personaggi che si aggirano all'interno di questi spazi; emerge in continuazione questa contraddizione tra magniloquente decadenza e di ricerca di un contatto fisico inappropriato e disgustoso (sia esso con corpi sezionati, con il corpo viscido del demone, con i topi, o con il fango e i pavimenti sporchi).

Tutto è decadente in Faust, a partire dal suo protagonista. Ma questa decadenza viene raccontata in maniera altrettanto decadente, senza riuscire a variare registro stilistico o introducendo quantomeno elementi in grado di deviare l'attenzione in senso brioso e sdrammatizzante (come pur si prova a fare: si pensi agli “incidenti” che avvengono durante il funerale). Quello che salva il Faust, film totalmente privo di un qualsivoglia incisivo “ritmo” è quindi la fotografia di Bruno Delbonnel, questa sì davvero eccezionale nella capacità di attingere alla tradizione espressionista come a quella romantico/fiabesca ottocentesca. Da segnalare però anche le scenografie di Elena Zhukova, che ricostruisce un contesto urbano tutto fatto di locali chiusi e degradati, viuzze strette e costantemente strapiene, esprimendo così la costante incapacità fisica e psicologica del Faust di vivere in un simile orizzonte. In quest'ottica il finale, in cui il protagonista corre con rinnovata energia verso grandi spazi pianeggianti e inabitati, sembra confermare l'idea di una società umana e urbana asfissiante e logorante, la cui fuga consente una nuova libertà ed un nuovo senso di vita.

Una nota sul momento più bello del film: questo è probabilmente lo squarcio di luce che colpisce il volto di Margarethe (Isolda Dychauk) quando questa si reca a visitare il dottor Faust a casa sua. Per un attimo si recupera tutta la grazia, la capacità lirica, la potenza evocativa del cinema dei primi grandi autori del cinema anni '20 (viene in mente soprattutto il Dreyer). Squisito.

Tutte le presenti osservazioni vanno a cogliere elementi positivi e negativi dell'opera. Nonostante non manchino quindi osservazioni benevole non sembra però minimamente sufficiente per parlare di Faust come di un capolavoro. È lecito dunque domandarsi se un'opera con spunti più che interessanti non sia stata sopravvalutata causa di un abbaglio collettivo dovuto magari alla fama dell'autore...

V Voti

Voto degli utenti: 9,3/10 in media su 3 voti.
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

alexmn alle 10:54 del 12 gennaio 2012 ha scritto:

pur avendo adorato 'arca russa' e ancora prima 'madre e figlio', dopo la visione de Il sole un'improvvisa avversione a sokurov mi ha tenuto lontano sia da alexadra che dal faust..devo dire che però dovrei recuperarlo, fosse anche solo per la fotografia di delbonnel

Marco_Biasio alle 11:59 del 20 aprile 2012 ha scritto:

L'ho visto ieri. E' un film di una complessità inaudita, che mescola il surrealismo spagnolo, gli onirismi di Lynch, un saldo impianto teatrale e, quel che più spiazza, una vena di umorismo grottesco e paradossale che devasta gli ambienti sudici in cui si muove il protagonista, in solitudine. E' davvero difficile arrivare a comprendere la dimensione di questo Faust, che non si barcamena solo tra le due edizioni di Goethe e quella di Mann, ma che trascende in un grado di astrattezza metaforica pienamente filosofica, si perde nei dedali della mente, nell'aspirazione al "beyond" nudo e crudo, a qualcosa che non potrà mai raggiungere. Esplicativa la scena paesaggistica finale. Dovrei rivederlo un'altra volta - qualche cerebralismo appesantisce un po' lo scorrere del tutto -, ma vorrei fare, a margine, tre appunti. Uno, la bellezza cristallina di Isolda Dychauk. Due, la fotografia strepitosa. Tre, quella scena da te citata che, anche per me, è il momento più bello ed espressivo del film: il close up sui volti, inondati di luce e quasi trasfigurati, di Faust e Margarethe. L'umano che tende al divino?

TexasGin_82 (ha votato 8 questo film) alle 17:45 del 17 luglio 2012 ha scritto:

Non sono assolutamente d'accordo. Questo film è un'opera d'arte. Forse non un capolavoro, ok, ma sicuramente si merita di emergere dalla semplice sufficenza, e di un bel po' anche. Il punto, a mio parere, è che il film si deve analizzare con la testa, come ha fatto il recensore, ma si deve giudicare con la pancia. La sensazione di schifo e disturbo profondo che ti lascia. I colori, la nebbia. Un urlo munchiano. C'è paura, e c'è la parte peggiore dell'uomo, e dell'essere. E non è facile per lo spettatore. Una fotografia perfetta, che mescola boschi, distese di ghiaccio e pietra, atmosfere sabbiose. Un'opera teatrale che mette in scena esseri deformi, violenza, tortura, anche mentale. Uno sviluppo ineluttabile, che nel finale ci mostra un inferno quasi terreno, affascinante, misterioso, dove realtà, metafisica e sogno sono mescolati assieme, dove la linea di confine tra l'inferno ultraterreno (quello di Dante o dei cattolici) e quello terreno, che tutti noi rischiamo di sperimentare ogni giorno, scompare. Un film così orribile che ti meraviglia. Il più inquietante e malato che io abbia avuto il piacere di vedere da qualche anno a questa parte.

forever007 (ha votato 10 questo film) alle 15:10 del 11 maggio 2013 ha scritto:

Sono completamente d'accordo con ogni tua parola. Opera d'arte è l'aggettivo perfetto, è davvero straniante come film, ti viene da pensare contemporaneamente "che schifo" e "quanto è bello". La ristrettezza dei luoghi che esalta la sceneggiatura trascendentale. E' troppo complicato secondo me per esse capito. Bisogna essere concentrati su ogni virgola, su ogni aspetto...è tremendo!