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7/10

Fai bei sogni regia di Marco Bellocchio

Biografico
recensione di Alessandro Giovannini

Massimo è ancora un bambino quando perde la sua amatissima madre a seguito di un infarto. Almeno, così gli ha detto suo padre. Massimo si porta dietro il fardello del sospetto fino all'età adulta, quando finalmente gli verrà svelata la verità.

Per Marco Bellocchio l'incontro con il best-seller autobiograifco di Massimo Gramellini dev'essere stato amore a prima vista: in questo tormentatissimo rapporto figlio-madre che è più in generale un conflitto individuo-famiglia, il regista di Bobbio ha riconosciuto le idiosincrasie che da sempre animano il suo cinema claustrofobico ossessionato dall'analisi dell'istituzione famigliare con la messa in luce delle perversioni che si porta dietro. così Fai bei sogni finisce per costituire, come già il precedente Sangue del mio sangue, una galleria di temi e personaggi tipicamente Bellocchiani che, se da un lato rischiano di rendere il suo cinema più recente un po' involuto, dall'altro sono talmente personali da fare la felicità di tutti gli estimatori del regista.

Squadra che vince non si cambia, quindi ecco di nuovo Daniele Ciprì alla direzione della fotografia e Francesca Calvelli al montaggio, per un film fatto di ombre notturne e ritmi generalmente distesi, ritmi da riflessione o da tormento interiore, ore notturne in cui interrogarsi su una verità taciuta per decenni e la cui brama di conoscenza non è placata, anzi forse è alimentata, dalla moltitudine di esperienze, professionali e sentimentali che il Massimo adulto, ormai giornalista affermato, si porta dietro. Un'ossessione per la ricerca della verità che è sia deformazione professionale sia forse la spinta originaria, la forza propulsiva che ha condotto il protagonista ad intraprendere quello specifico percorso professionale: vedere con i propri occhi, accedere alla verità, affrontare la morte guardandola in faccia (come dimostra l'efficace parentesi di inviato di guerra in Bosnia). Altrettanto importante è il dispositivo fotografico, e quindi il cinema, che diviene metafora dei propri turbamenti interiori ma anche consolazione dagli stessi - il fantasma di Belfagor, spaventevole ma al contempo rassicurante totem di Massimo bambino, forse surrogato di una figura paterna mantenutasi sempre distante e anempatica.

Dove il film pecca è forse nella banalità della struttura narrativa da "thriller" che punta ingenuamente a stupire con un colpo di scena finale che più telefonato non si può (oltre che essere cosa ben nota alla moltitudine di lettori del libro), il che stempera un po' l'interesse della seconda parte risultando in un goffo anticlimax. Fortunatamente le ottime interpretazioni del cast concorrono a sostenere la pellicola per tutta la sua durata.

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