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7/10

Il paese delle spose infelici regia di Pippo Mezzapesa

Drammatico
recensione di Matteo Triola

Veleno e Zazà. Due adolescenti. Due vite agli antipodi che, per un inesorabile magnetismo, sono destinate a convergere, a consumarsi insieme, come tacchetti su polverosi campi di pallone di provincia. Veleno, figlio di borghesi, vuole sporcarsi, ferirsi, masticare la vita. Zazà insegue un sogno, lontano dalla criminalità e dalla strada, esistenza a cui, per vocazione familiare, sembra destinato. Gli basterebbe solo assecondare il suo talento, e seguire i consigli del mister Cenzoum, per costruirsi un destino diverso. Ma a quindici anni l'unica cosa che si segue è l'istinto, e tutto è destinato a complicarsi.

 

Presentato in concorso all'ultimo Festival Internazionale del Film di Roma e prodotto da Fandango, “Il paese delle spose infelici” è il film che segna il battesimo del regista Pippo Mezzapesa al lungometraggio. Tratto dall'omonimo libro di Mario Desiati, il film ci trasporta nel cuore del profondo Sud italiano, in un paesino nella provincia pugliese dove i ragazzini passano il loro tempo tra scuola (poca, anzi del tutto assente), strada e molto più volentieri, il campo di calcetto.

La Cosmica - così si chiama infatti la squadra di calcio dei ragazzi del paese - sembra l'unico piccolo raggio di speranza che illumina la tristezza e la malinconia delle loro vite; così giovani (15 anni), e già così immersi fino al collo nei drammi quotidiani di coloro che li circondano. I protagonisti al centro della storia sono Zazà (Luca Schipani) e Veleno (Nicolas Orzella), due ragazzi agli antipodi della scala sociale, ma che presto diventeranno amici inseparabili. Zazà vive nei bassifondi con un fratello spacciatore, Veleno invece è il figlio di un avvocato. A loro si aggiungono altri pittoreschi amici quali Cimasa (Cosimo Villani), Capodiferro (Vincenzo Leggieri) e Natuccio (Gennaro Albano). Bravate, corse in motorino e perfino un occhio buttato alle piccolezze della politica di provincia. Un ritratto realistico e fedele, fin qui, che Mezzapesa arricchisce con dettagli e sequenze estremamente gustose – divertente la sequenza della masturbazione collettiva - che riescono a far sentire lo spettatore coinvolto dalla narrazione, e piacevolmente sorpreso. D'altronde non dev'essere stato facile trovarsi a girare questo film rendendo naturali i dialoghi e la recitazione di attori bambini, rigorosamente non professionisti. Un pregio della regia di cui riconosciamo gli sforzi.

Ecco però che un bel giorno, la monotonia del gruppetto di amici viene interrotta da – è proprio il caso di dirlo – un'apparizione: Annalisa (Aylin Prandi). Emarginata da tutti in paese per il suo passato traumatico, Annalisa è ormai un'alienata che vive in una sua dimensione, senza curarsi degli altri. Veleno e Zazà, in preda a quella curiosità tutta “bambinesca”, finiscono con l'invaghirsi di lei. La frequenteranno, senza immaginare a cosa questa scelta li porterà. Tuttavia, con la comparsa di Annalisa, il film comincia drasticamente a perdere d'interesse e di coerenza. Le scelte stilistiche di Mezzapesa rasentano a volte il manierismo, e sembrano voler emulare certi effetti alla Von Trier, rompendo purtroppo quell'atmosfera da “realismo pugliese” che si era creata sullo schermo. L'elemento forte, che servirebbe al regista per dare una svolta al film e alle vicende dei giovani protagonisti, rimane un semplice pretesto. La cura e la perizia della messa in scena, dall'utilizzo delle musiche di Non è la Rai alle immagini di Ok, il prezzo è giusto, che servono per ricreare la perfetta ambientazione dei primi anni '90, rimangono semplicemente degli orpelli. Si ha l'impressione che il regista abbia voluto imprimere un'accelerata, saltando di gran carriera e omettendo aspetti più personali dei protagonisti.

Ne esce un quadro incompleto, certamente in linea con i canoni del cinema post-moderno, ma che rischia di lasciare lo spettatore con l'amaro in bocca. Si sente molto la mancanza di quei dettagli e di quella veracità che si trovano invece nei “Ragazzi di Vita” di P.P.Pasolini, verso il quale evidentemente il regista - e ancor prima lo scrittore - hanno un forte debito di soggetto. Rimane comunque un film godibile, e una buona opera prima, per un regista come Mezzapesa, che ha alle spalle una premiatissima carriera da documentarista e da regista di cortometraggi (L'altra metà, 2009; Come a Cassano, 2006; Zinanà, 2004). Auspichiamo che questo amore spasmodico per la forma estetica si trasformi in altrettanta cura e precisione narrativa.

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