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6/10

La Solitudine Dei Numeri Primi regia di Saverio Costanzo

Drammatico
recensione di Marco Biasio

I numeri primi, in matematica, sono quelle cifre divisibili solamente per 1 e per sé stessi. Le vite di Alice Della Rocca (Alba Rohrwacher) e Mattia Balossino (Luca Marinelli), due giovani torinesi, si incroceranno casualmente nel pieno dell'adolescenza, in un liceo comune da essi frequentato, e continueranno a rincorrersi freneticamente nel corso degli anni, senza mai riuscire a toccarsi del tutto, fra amori, amicizie, rimpianti, incomprensioni, silenzi. E reconditi segreti infantili da entrambi gelosamente custoditi...

Se dovessi acclarare che la mia abitazione dove vivo a Roma fosse stata pagata da altri, senza saperne io il motivo, il tornaconto e l’interesse, i miei legali eserciteranno le azioni necessarie per l’annullamento del contratto di compravendita” (Claudio Scajola, ex Ministro dello Sviluppo Economico)

Acclarare. Questo è il punto. Acclarare. Chi non userebbe verbi così, l’amato Scajola escluso, nelle proprie conversazioni quotidiane? Sarebbe un delitto rifiutare un suono così amabile, così musicale. Letteralmente significa “accertare”, nell’accezione del linguaggio giuridico. Sono certo, tuttavia, che la sensibilità di ogni lettore troverebbe infiniti impieghi della forma con significati variabili, a proprio piacimento, dall’acclarazione del Papa di turno ai 40° all’ombra che ci fanno sentire tutti un po’ acclarati: molto probabilmente, infatti, i superstiti che avrebbero potuto raccontarci di un uso frequente e sistematico di “acclarare” riposano in pace da anni, se non decenni. Epperò, infilato a tradimento in un pomposo discorso ufficiale, colpisce nel segno e fa tendenza. Parla come mangi, suggerirebbe la saggezza popolare e noi con essa, ma è chiaro, palese e manifesto che chi imbastisce solenni convivi metalinguistici, siano essi acclarati o meno, in via della sostanza pura e semplice, ha qualcosa da nascondere.

Seguendo questo ragionamento tutto sommato lineare, si arriva ben presto a capire che Saverio Costanzo ha degli scheletri nell’armadio. E nemmeno così occulti. Non parliamo certo – almeno si spera – di case incautamente pagate da altri, o di una parentela così scomoda da schiacciarlo (sebbene i maligni, in sede di voto, si potrebbero vanamente aggrappare anche a questo), bensì della sua quarta opera, “La Solitudine Dei Numeri Primi”, e della selva di dubbi ed incertezze che sbocciano nella testa dello spettatore a fine visione. Premessa doverosa: colui che scrive ha dapprima visto il film e solo in seguito letto l’originale cartaceo di Paolo Giordano, caso letterario di appena qualche anno fa. Nessun sermone parafilosofico su come, dunque, la linearità del mediocre romanzo venga messa in crisi da uno stravolto sistema cronologico – è acclarato – che pesca avanti ed indietro nel tempo con un senso della discrezione pari a zero. Semplicemente, qualche considerazione a freddo (la pellicola è nelle sale da ormai due settimane) su cosa rimane di una tale trasposizione.

Fissiamo, anzitutto, un punto fermo: Costanzo, anche sotto un profilo squisitamente eufonico, non è e non può ambire ad assomigliare a David Lynch. Eppure lo deve apprezzare parecchio, se nel corso di tutto il film decide di giocare sulla contrapposizione dei colori, di fregarsene delle diacronie 1984-2007, di assaltare il blob della trama con flashback, brandelli citazionisti (si va dal primo thriller di Argento ai sociospasmi kubrickiani, ai drammi interiori di Cristina Comencini nelle figure assenti, crudeli ed ostinatamente detestabili dei rispettivi genitori), vacui silenzi che sembrano inghiottirsi tutte le promesse non mantenute. La storia di Mattia e Alice, due giovani e travagliatissime vite destinate ad isolarsi dal resto del mondo a causa dei loro caratteri “primi”, divisibili solo per uno e per sé stessi, possiede sottesa quella melassa diaristica che attira così tanto la maggioranza dei nuovi cineasti italiani, da ormai un decennio (“L’ultimo bacio” e “Le Fate Ignoranti”, per quanto buoni prodotti, hanno molte colpe al riguardo). Il regista cerca, per quanto gli sia possibile, di evitare l’effetto melange, rivoltando come un calzino il senso complessivo della storia e basandosi, giustamente, sul grande effetto recitativo di una splendida Alba Rohrwacher e di un ottimo Luca Marinelli: un atto di potenziale grande coraggio, sfumato però nei mille rivoli di un mestiere ancora ampiamente da padroneggiare.

A “La Solitudine Dei Numeri Primi” manca infatti quel quid necessario (la chiarezza?) per consentirgli di schierarsi pienamente dalla parte di un onesto mainstream o, viceversa, mirare ad un pubblico più colto, intellettuale, maturo. Il riflesso della pellicola è infatti confuso, come distorto da una lente riflettente, ma di una confusione non meticolosamente costruita. Il caos e lo smarrimento sono, piuttosto, effetti collaterali di determinati accorgimenti, in parte certamente forzati, che non rientrano nei piani lavorativi di regia e sceneggiatura e risultano, alla lunga, inconcludenti. La grande incompiuta corona il suo apice, d’altronde, in un amaro finale-non finale retorico, un po’ svilente nei confronti dei due protagonisti, sino all’ultimo degni del proprio ruolo. Non sono mancati gli strali infuocati, a questo proposito, di chi ha amato la conclusione del libro e si è sentito, in qualche modo, tradito dalla reinterpretazione di Costanzo, che è invece – almeno qui – la cosa più fedele di 118’ interessanti per la scelta di aprirsi nuove strade, ma ancora da risistemare per una revisione finale quasi obbligatoria, ai fini di puntare ben più in alto, liberandosi da una scomoda sufficienza di rito.

Menzione speciale per la colonna sonora firmata dall’istrionico Mike Patton, ficcante in più di un frangente e sicuramente adeguata ai contesti tesi, chiusi e dolorosi del lungometraggio ma, anch’essa, fin troppo indulgente sui particolarismi di una certa scena pre-horror (il tema portante letteralmente sgraffignato da “L’Uccello Dalle Piume Di Cristallo”, certi singulti prog con gli occhi fissi sui Goblin) e dimenticabile lontano dalle simmetrie cromatiche delle immagini.

Ah: naturalmente, non c’è niente che in precedenza non sia già stato acclarato, sia ben chiaro.

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trimatthew87 (ha votato 4 questo film) alle 14:01 del 11 ottobre 2010 ha scritto:

Un film che snatura il romanzo...

Da lettore del romanzo, devo dire che mi sarei aspettato qcosa di più da Costanzo. Non se la può certo cavare dicendo alle conferenze "Che cosa vi aspettavate, Il Gattopardo?". Tanto più che ha voluto come co-sceneggiatore Paolo Giordano!!! Due menti che unite insieme ne fanno appena una in questa circostanza...Voler trasporre in chiave horror questo soggetto non vuol dire sperimentare, ma ERRARE. O si porta avanti un discorso coerente, oppure si dà una propria lettura; ma questo film con il romanzo non c'entra davvero niente! I riferimenti a Kubrick poi, me li deve proprio spiegare...Un appiccicaticcio di citazioni diciamo "colte" che per il grande pubblico francamente, sono sprecate.

Altro grande cruccio: la povera e bravissima Alba Rohrwacher ridotta sempre a macchietta stile "brutto anatroccolo".

forever007 (ha votato 7 questo film) alle 16:20 del 13 maggio 2013 ha scritto:

Se uno non ha letto il libro, del film non ci capisce nulla..