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9/10

Le cose che verranno regia di Mia Hansen-Løve

Drammatico
recensione di Leda Mariani

Nathalie insegna filosofia in un liceo di Parigi e per lei quello non è solo un lavoro, ma un vero e proprio stile di vita. Un tempo fervente sostenitrice di idee rivoluzionarie, ha convertito l’ idealismo giovanile nell’ ambizione più modesta di insegnare ai ragazzi a pensare con le proprie teste, e non esita a proporre ai suoi studenti testi filosofici che stimolino il confronto e la discussione. Sposata, due figli e una madre fragile che ha bisogno di continue attenzioni, Nathalie divide le sue giornate tra la famiglia e la sua dedizione al pensiero filosofico, in un contesto di apparente e statica serenità. mostra spoiler

Improvvisamente il suo mondo viene completamente stravolto: il marito le confessa di volerla lasciare per un’altra donna, la mamma muore, i figli sono ormai cresciuti, e Nathalie si ritrova, suo malgrado, a confrontarsi con un’inaspettata libertà. Con il pragmatismo che la contraddistingue, la complicità intellettuale di un ex studente, e la compagnia di un gatto nero di nome Pandora, Nathalie deve ora reinventarsi una nuova vita.

Un film morale: le questioni filosofiche nel Vaso di Pandora

Dal titolo, in francese molto più elegante, L’Avenir, che poteva anche essere lasciato così com’era, l’ultimo lavoro di Mia Hansen-Løve, dalla regia sempre elegante e raffinata, è un bellissimo film sul concetto di libertà, che rimbomba in ogni elemento della pellicola, rimbalzando sulle parole, nelle citazioni più o meno dirette, e nelle vicissitudini che portano la protagonista Nathalie, meravigliosamente incarnata da Isabelle Huppert, a scoprire appunto la libertà, trovandosela improvvisamente tra le mani. La riflessione si colloca nel dialogo tra libertà e felicità e nell’espressione del loro rapporto: <<La felicità, rende liberi?>>, <<La libertà, può rendere felici?!>>… ma non esistono vere risposte, bensì solo domande. La domanda è il nucleo della Filosofia, di questo film, ed è espressione autentica del pensiero, ben più di un’infinità di risposte individuali.

Nathalie ha cinquantacinque anni, due figli, un marito, ed una madre fragile. Insegnante di filosofia, la sua vita si muove tra casa e scuola, principi filosofici ed interrogativi morali. Affidabile, onesta e leale, Nathalie si prende cura della sua famiglia e di una mamma anziana e vanitosa, sfinita dalla vita (una bravissima Edith Scob). Il suo procedere spedito dentro le cose umane è interrotto dalla confessione improvvisa del consorte, che vuole lasciarla per un'altra molto più giovane, e dalla morte della madre, ricoverata a malincuore in una casa di riposo. Disorientata dal doppio abbandono e da una surreale libertà ritrovata, Nathalie ripiega nel 'rifugio' di Fabien, un ex allievo brillante ed anarcoide, interpretato, nei suoi lati d’ombra e di luce, da un bravissimo Roman Kolinka. In quell'intervallo esistenziale, e in compagnia di una gatta nera ereditata, Nathalie ritrova il senso e il bandolo di sé. I personaggi, apparentemente molto diversi, dell’insegnante di filosofia e del suo ex alunno - ricercatore per passione - vivono, in fondo, la stessa vita che vale per tutti. Vecchi, giovani, individui al termine della loro esistenza… tutti incappano nelle stesse dinamiche: sono liberi, ma mai totalmente, sono felici di alcune cose, ma non di altre, tutti vittime a loro modo di  reazioni, idee, bisogni. Non ci sono eccessi nei caratteri di questo film: nulla di artificioso, di troppo scritto, nonostante le tematiche importanti. E l’eroina della storia avanza, matura e coraggiosa, vigorosa e testarda, nonostante sembri fragile e inizialmente dipendente dai suoi sentimenti. Nathalie  è una donna forte come le femmine sanno essere, alla conquista di una libertà che ha bisogno di essere ripensata e che non è individuale e narcisistica, ma che va intesa nel rapporto profondo con la responsabilità dell'accoglienza e della cura per l'altro.  Nathalie è inciampata, nella vita e sui ciottoli della Bretagna, ed ha fatto dell'imprevisto il tema della lezione (così come dovremmo riuscire a fare tutti nel percorrere le nostre esistenze): un’importante, rigorosa, ed abile indagine filosofica sulla natura umana.

Girato in maniera molto elegante e pulita, con la fotografia discreta e misurata di Denis Lenoir, il film è reso ancor più efficace da un cast di attori eccezionali, tra i quali comunque la Huppert spicca, dopo aver vinto il premio come miglior attrice dell’anno London Critics’ Circle Awards. Premiato al festival di Berlino, L’Avenir ha ottenuto 2 candidature ai London Critics, esplorando quelli che sono forse i temi ricorrenti dei film della giovanissima e talentuosa  Hansen-Løve : il concetto di tempo, le sue dinamiche, l’affermazione di sé, e la forma della maturità, anche sociale e non solo individuale.

Per la prima volta, a parte un qualcosa di Godard, incappo in un film che potrei definire “filosofico”: non solo perché tratta apertamente di filosofia e di varie forme del pensiero, da Emmanuel Lévinas, al concetto vecchio e riscoperto di Anarchia, che riapre l’ipotesi della costruzione di una società nuova, ma anche un film proprio strutturato in maniera filosofica. Una narrazione che procede per domande, una sceneggiatura che si pone costantemente questioni: esistenziali, politiche, sociologiche, alle quali la protagonista, non a caso insegnante di filosofia, cerca di dare risposte, o che ripropone ad altri.

Molto interessante è la chiara dicotomia, che il film esprime, tra una società borghese facilitata nel vivere il suo stato di benessere, ma assolutamente schiava di sé stessa, e i giovani delle nuove generazioni, che invece partono da una vera e propria tabula rasa, privati di tutto, anche di un loro futuro chiaro e precostituito, ma comunque molto più liberi di essere e di scegliere.

Il gatto Pandora, buffo personaggio apparentemente laterale, che passa da madre a figlia e poi alla vita agreste, è simbolico e strategico, nel suo ricordare quel mito della Pandora del Vaso (o dello Scrigno), il cui scoperchiamento porta sulla terra le grandi cause delle questioni che da sempre attanagliano l’umanità: vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia, il vizio, e solo per ultima, la speranza, che è il motore della ricostruzione.  Il gatto è quasi l’unico essere che scatena davvero gli stati emotivi ed emozionali di Nathalie, donna in genere fredda, molto misurata, calata nel ruolo di algida intellettuale che ci aspetteremmo guardando agli stereotipi sulla borghesia sessantottina.

C’è una rassegnazione, in questo film, che è profonda verità, anche in questo caso intesa in senso filosofico come ciò che è e che non può non essere. Il racconto espresso dal film induce a riflettere profondamente anche sulle azioni apparentemente più semplici, rivivendole con maggiore coscienza, come l’ipotizzare, il porsi domande, l’ascoltare, il parlare, leggere, e il concentrasi sull’essenza delle cose. Il messaggio di spinta all’azione per le nuove generazioni è chiaro: esse sono invitate a rimboccarsi le maniche e ad immaginare una società diversa, sulla scia di una potente spinta democratica. Perché mentre la società borghese e pre-borghese, rivoluzionaria a modo suo e nei suoi tempi, poteva spingere a pensare con le proprie teste, invece il bisogno odierno è quello di dar vita ad una nuova società, dato che quella creata dai “genitori”  non consente nemmeno più la sussistenza. Ai figli tocca il recupero del pragmatismo e del contatto con la realtà: con la natura, con l’essenza delle cose, con la pancia delle cose, da sempre rappresentata dal femminino e questo vale anche per chi, volente o meno, è costretto a darsi, oggi, un nuovo inizio.

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