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R Recensione

7/10

La Sposa Turca regia di Fatih Akin

Drammatico
recensione di Pasquale D'Aiello

Cahit ha 40 anni ed è ricoverato in una clinica psichiatrica a causa dei suoi numerosi tentati suicidi. Sibel è una giovane e bella turco-tedesca che ama troppo la vita per essere una brava ragazza musulmana. Per sfuggire alle regole della sua famiglia conservatrice la ragazza inscena un finto suicidio, che però la coprirà solo di vergogna, senza portarle la libertà sperata. Solo il matrimonio potrà salvarla, perciò chiede a Cahit di sposarla. Riluttante, questi alla fine accetta e i due iniziano a vivere insieme ma c'è poco che li unisca.

Film premiato alla Berlinale 2004 con l'Orso d'Oro. Sibel è una ragazza tedesca ventunenne, normalissima. Un viso simpatico, un corpo pieno di energia, tanta voglia di vivere e una vita che prima ancora di iniziare ha già cercato di buttare via. Una ragazza talmente normale che forse non potrebbe neppure essere presa in considerazione per narrare un storia. Ma Sibel ha una caratteristica che la rende particolare: la sua famiglia è di origine turca. Cahit, anche lui di origine turca ma completamente occidentalizzato, ha più di quarant'anni e la sua vita è già finita, per questo cerca di annullare l'agonia mettendole fine.

Nell'ospedale che li prende in cura dopo i loro tentati suicidi lei gli chiede di sposarla "per finta" per darle la libertà che la famiglia le nega. Lui accetta, per pena. Il contatto di lei, vitale e giovane, è di per sè rivoluzionario per lui. Sufficiente per sconvolgergli la vita, per indurlo ad amarla. Ridargli una vita.

Fin qui potrebbe essere un film sull'amore in occidente, capace di superare barriere e archetipi. Ma loro, che pure amano e vivono in occidente appartengono all'oriente. Il peso di una cultura e una religione (islamica) perbenista, gretta e maschilista si abbatte su di loro, su di lei in particolar modo, in quanto donna. Eventi accidentali (il carcere per lui) inducono lei a tornare in Turchia e qui lei resta definitivamente schiacciata dal peso soffocante di quella cultura che respinge e distrugge qualunque anelito di libertà.

Lei subisce sul suo corpo la reazione rabbiosa della società al tentativo di ribellione, viene insultata, stuprata, ferita. Salvatasi, per casualità, si costruisce una famiglia "normale". Cahit torna in Turchia per rivederla, lei lo ama ancora, decide di fuggire con lui ma il richiamo degli impegni familiari vince. E' una denuncia forte, chiara, drammatica della violenza della religione, della specifica violenza della religione islamica, più virulenta della più domata cattolica.

È un denuncia della violenza della società (turca nella fattispecie) sugli individui e sulle donne in particolare. E', infine, l'ammissione coraggiosa che dove non arrivano le costrizioni della religione possono arrivare i vincoli autoimposti dal controllo esercitato dall'istituzione familiare (sia di provenienza che di arrivo). Non servono (perchè sbagliati, strumentali e rozzi) i proclami di superiorità della cultura occidentale su quella orientale (islamica).

Questo non deve spingere, però, in alcun modo a porre le più retrive pratiche islamiche (o come le si vorrà chiamare) sullo stesso piano delle laicizzate pratiche cristiane, vinte e svuotate dalle vittorie dell'illuminismo e del materialismo dialettico. L'alto valore politico dell'opera non  ne riduce la qualità filmica, intensa, agile, profondamente vissuta sui corpi degli attori, a sottolineare la vittoria della materia viva sullo spiritualismo morto della religione.

L'uso intelligente dell'ellissi, nelle immagini, nei dialoghi dona eleganza e ritmo. Il titolo  originale: Gegen Die Wand (contro il muro), rende bene l'idea base di questa storia, molto più del vago titolo italiano.

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