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R Recensione

5/10

La Bottega dei Suicidi regia di Patrice Leconte

Animazione
recensione di Federica Banfi

In una città dove la vita è talmente triste al punto che l'unico desiderio dei suoi abitanti è quello di morire, il negozio più in voga è "La bottega dei Suicidi", dove è in vendita ogni tipologia di arma atta a togliersi la vita. I signori Tuval ne sono i cupi proprietari, ma la nascita del terzogenito, Alan, incarnazione della gioia di vivere, ribalterà gli equilibri della famiglia e della città stessa.

Immaginate una città grigia, intrisa di smog, sovrasviluppata e priva di ogni tipo di stimolo, in cui ogni persona ha un unico, ultimo desiderio: quello di morire. C’è solo un intoppo, però. Morire in luoghi pubblici è vietato: non si può saltare nel vuoto da un cornicione di un palazzo e nemmeno decidere all’ultimo di gettarsi sotto un autobus. Come fare allora?

È qui che entrano in gioco Mishima Tuvache (doppiato nella versione italiana da Pino Insegno) e la sua famiglia (composta dalla moglie Lucrèce, e i figli Marilyn e Vincent), eccentrico proprietario della “Bottega dei suicidi”, un coloratissimo e invitante bazar la cui insegna riporta il motto “Trapassati o rimborsati”, in cui è possibile trovare cappi di ogni forma e lunghezza (sgabellino incluso o meno), veleni il cui prezzo varia in base alla rapidità di azione, solitamente molto graditi dalle signore, coltelli giapponesi per i più coraggiosi; insomma ogni tipo di arma per porre fine alla propria esistenza nel modo più consono all’esistenza degli acquirenti. La loro attività va a gonfie vele fino alla nascita del terzogenito, Alan, un bambino solare e ottimista che rischia, col suo entusiasmo per la vita, di mettere a repentaglio gli affari di famiglia.

Nonostante sulla carta l’idea di un film in cui trionfasse la libertà di scelta e l’umorismo nero fosse molto buona, La Bottega dei Suicidi, che in Italia ha rischiato addirittura di essere censurato a causa del suo tema considerato scabroso dai più, invece delle promesse di ironia e tragicommedia che portava con sé, si rivela essere un semplice cammino verso un facile buonismo, che non ci si aspetta da un cartone animato considerato ‘per adulti’, soprattutto se tratto dall’omonimo romanzo di Jean Teulé, il cui finale e tutt’altro che positivo. Il tema della morte e del gotico, già trattato ampiamente (e meglio) da maestri del cinema di animazione quali Tim Burton, viene qui utilizzato esclusivamente come un pretesto per arrivare a una conclusione positiva e per portare un messaggio di amore universale incarnato nel personaggio di Alan, che viste le premesse, risulta prevedibile e deludente. È un peccato, perché la pesantezza del tema sarebbe già stata ampiamente alleggerita anche soltanto dalla scelta di intervallare a momenti troppo cupi alcune canzoni (originali, di Pierre Perruchon) dai testi sarcastici. Le chicche però non mancano: partendo dall’inventario dei prodotti acquistabili presso la bottega dei Tuval, fino ad arrivare alla scelta dei nomi dei proprietari, tutti ispirati da personaggi morti suicidi o collegati alla morte (Lucrezia Borgia, Yukio Mishima, Marilyn Monroe, Vincent Van Gogh e Alan Turing). Scelte brillanti, che però non riescono a scongiurare la banalità di un prodotto che purtroppo manca del coraggio necessario per trasformare una storia qualunque di miseria e grigiore salvati dall’amore in qualcosa di più.  

V Voti

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