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7/10

Dust Cloth regia di Ahu Ozturk

Drammatico
recensione di Marta Terzi

Due donne, Nesrin, di indole sensibile e malinconica, appena lasciata dal marito, e Hatun, pragmatica e irriverente, sono due donne delle pulizie di origine curda. Entrambe sognano un futuro migliore, un lavoro stabile ed un'assicurazione e magari una bella casa. Nesrin ci prova, ma le difficoltà, col tempo, diventano sempre più insormontabili.

Dust Cloth è il primo lungometraggio della turca Ahu Ozturk, documentarista al suo lungometraggio d'esordio; Dust Cloth è un viaggio in sordina nella vita di due donne arrivate ad un punto cruciale della loro esistenza: quello dove non si riesce più a subire. Quando il film comincia Hantun è una donna di mezza età con un figlio adolescente ed un marito brontolone. Si lamenta e urla per un lavandino che perde, ma sa molto bene che non lascerebbe mai la sua famiglia, o il suo lavoro, definendosi contenta della sua vita. Nesrin invece è ad un punto di svolta drammatico: il marito Cefo è andato via da casa e non vuole saperne di tornare o di parlare con la moglie, che deve crescere la figlia da sola. Ad accomunare le due donne c'è l'amicizia di una vita, un rapporto quasi di sangue che si costruisce sulla condivisione di frustrazioni e di pettegolezzi, e poi il lavoro, perchè il centro della vita di questi due personaggi è la loro occupazione come donne delle pulizie nelle case di signore benestanti. Questo è un film costruito su due livelli: quello relazionale e quello quotidiano. Da un lato abbiamo un forte tessuto relazionale, che permette ai personaggi principali di definirsi: c'è il burbero marito di Hantun e la figlia di Nesrin, bella e dolce; e poi i rapporti, fondamentali, con le proprie datrici di lavoro. Nesrin si sente subordinata alla padrona per cui lavora ed ogni volta che ella entra in casa si ferma a salutarla, un po' china, un po' impaurita. Poi però riesce a confidarsi con lei, chiedendole aiuto per trovare lavoro. Sembra un rapporto di mutua confidenza e aiuto e funziona perchè Nesrin sa bene qual è il suo posto. Hantun, invece, lavora per una vecchia signora scorbutica, che va d'accordo con poca gente. È convinta, tuttavia, che per lei, la donna anziana, abbia un occhio di riguardo e sogna che un giorno le regalerà la casa in cui vive. Ma è solo un sogno: la signora è infatti indifferente alle sofferenze di Hantun e non esita a ridurle i giorni di lavoro quando questa chiede un piccolo aumento. Questa conflittualità si genera nel momento in cui Hantun tenta di elevarsi, commettendo l'errore di considerare amica quella che in realtà è una padrona. Sono relazioni importanti quelle con l'esterno e si costruiscono bene, si evolvono con la storia mostrandone i personaggi per quello che davvero sono. Il secondo livello è strutturato sulla quotidianità: il film vuole sottolineare la drammaticità di queste vite riproponendo le situazioni della normalità ancora e ancora, con una drammaticità crescente, senza soluzione. Le protagoniste vengono risucchiate nel vortice della società e sono destinate ad adeguarsi o a sparire. Cercano di lottare per migliorare la loro vita, trovando un nuovo lavoro, sperando in un salto di classe, risparmiando; ma ciò non è possibile, non si può scappare da dove si è cresciuti. È questa, forse, la tesi più importante del film: la societù non ti offre un riscatto, un salto di qualità. Se dalla polvere sei nato, nella povere rimani. E così il lungometraggio si conclude con la sparizione di chi non riesce a reggere la propria vita, di coloro che, tentando di ribellarsi, sono stati costretti alla morte sociale. È il caso di Nesrin. È poi c'è Hantun, che si ribella alla vecchia signora, ma non alla società; Hantu si salva perchè non cerca di cambiare la sua posizione o la sua vita, perchè non è orgogliosa e si accontenta. Ed è così che si sopravvive nel mondo, ci dice la regista: accontentandosi di quello che si ha e senza vivere da orgogliosi, oppure un giorno si sarà costretti alla fuga e all'abbandono. Il film presenta un'estetica coerente con l'esperienza da documentarista di Ahu Ozturk, con un frequente utilizzo di macchina in movimento e a mano: uno stile fondamentale che permette allo spettatore di stare lì, nella storia, a viverla con i personaggi, comunicando la pesantezza di questa vita e mostrandone ancora e ancora i tratti di una quotidianità la cui tragicità si accresce. Il lungometraggio si costruisce molto bene sulla contrapposizione tra i continui fallimenti di chi prova a lottare, e la staticità di chi si accontenta. Eppure, forse, calca un po' troppo su questo, costruendo un film, in alcuni momenti, un po' lungo e statico. È comunque sicuro che la regista ha perfettamente idea di quello di cui vuole narrare e di come vuole mostrare il suo paese. E questa sicurezza in un'opera prima, che talvolta sfocia nella saccenza, colpisce positivamente.

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