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8/10

Rosso Istanbul regia di Ferzan Ozpetek

Drammatico
recensione di Alessandra Graziosi

Lo scrittore Orhan Sahin torna a Istanbul dopo tanti anni per aiutare il noto regista Deniz Soysal a scrivere il suo primo romanzo. Orhan si ritrova a guardare con nostalgia i luoghi dove è nato e cresciuto, rivivendo i rapporti con amici, familiari e amori passati.

Con Rosso Istanbul, Ferzan Özpetek porta lo spettatore in una dimensione altra, quella di una città traboccante di nostalgia. Il lungometraggio, prodotto da R & C Produzioni, ha una base autobiografica e poggia le sue fondamenta sull’omonimo romanzo scritto dal regista stesso.

Rosso Istanbul è un film allo stesso tempo corale e singolare per quanto concerne il punto di vista scelto, che diventa molto presto quello di un editor, un uomo che sembra aver accettato le sue contraddizioni e dilemmi morali, molto pacato al contrario del personaggio del regista.

Il rapporto con la città di cui il titolo è legato soprattutto allo stretto del Bosforo, famoso per separare storicamente da sempre l’Oriente dall’Occidente e lo stesso per Istanbul: non è un caso, al contrario risulta scelta molto azzeccata, se molte scene sono ambientate in prossimità del suddetto stretto e dei relativi ponti.

Questi rappresentano subito stretti simbolici collegamenti tra due mondi, i quali possono rappresentare per il singolo anche passato e futuro: rapporto il quale se non ben gestito può diventare estremamente pericoloso per la persona.

In Rosso Istanbul, oltre alla fascinazione inevitabile data da luoghi, personaggi, situazioni, è presente una sottocutanea tensione che va riunendo le sotto-trame che costituiscono il film verso un’unica direzione, quella della scelta di come vivere dinanzi ad una continua scelta, un continuo compromesso e rischio: meglio vivere di rimpianti oppure nell’ipocrisia?

Özpetek lascia scegliere allo spettatore ma ci tiene a sottolineare che la sincerità, almeno quella con sé stessi e con chi ami, è ciò che alla fine paga di più, nonostante il mondo intorno possa collassare alla maniera di Inception solo nella vita sociale e reale.

Nonostante in apparenza alcune reiterazioni e ritorni sugli stessi luoghi, probabilmente dovuti a problemi in fase di riprese viste le difficoltà logistiche al limite dell’impossibilità ormai nel girare audiovisivi in determinati paesi o zone, queste difficoltà sono state sfruttate come temi, momenti, atmosfere, simboli ricorrenti, dal ponte del Bosforo, al traghetto che appunto “traghetta” le anime tra Oriente e Occidente quasi fossero non vivi, alle figure femminili così pericolose e sfuggenti per necessità imposte dalla società e dalla sopravvivenza. Tutto ciò è un’arma a doppio taglio.

Un lungometraggio che si approccia a personaggi dal passato tragico - pieni di dolore - e che li contorna di situazioni e personaggi secondari ambigui, come l’autore italo-turco sa ben fare, da sempre.

 

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