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5/10

Se sposti un posto a tavola regia di Christelle Raynal

Commedia
recensione di Alice Grisa

E' il giorno del matrimonio di Marie. Per un "incidente di percorso" i segnaposti di uno dei tavoli vengono spostati e rimessi in ordine casuale.

Quali sarebbero le conseguenze se questi cartoncini fossero in una diversa disposizione? E un'altra ancora?

Una commedia romantica sul filone Sliding Doors.

Regina del “fato-fai-da-te”, incantevole ballerina sulla cristalleria del temp(ism)o metropolitano, la Gwyneth Paltrow di Sliding Doors era la “self-made-woman” a cavallo di due millenni, il sogno dell’active-Cinderella dentro e fuori le porte scorrevoli. Con Se sposti un posto a tavola il filone “e se” si è ormai formattizzato in un patchwork ibrido che incrocia il sottogenere del film matrimoniale; rimane l’intento, ragionare sul rapporto destino/libertà e provare a raccontare il dilemma della responsabilità umana. Il film della pubblicitaria Christelle Raynal  infiocchetta citazioni “alte” (Smoking/Non smoking di Resnais, costruito sulla complessità delle conseguenze di fumare o meno una sigaretta o il cervellotico Destino cieco di Kieslowski, una divinizzazione ascetica e politica del caso) o più accessibili, come il manifesto-copertina iniziale de L’amore dura tre anni di Beigbeder, o personaggi in un mood wannabe (but I can’t) Quattro matrimonio e un funerale. Il risultato è troppo leggero, come le bollicine dello champagne, come la prima strofa del brano portante Starlight “Sun is rising up on the the east side/A chance for everyone /I've been dreaming of the city for long time/Far from my own town”: siamo di fronte a un film ottimista che si nutre delle proprie aspettative ma, come spesso succede nella corsa al glam e alla raffinatezza della città (se intendiamo Resnais come “città”), ricade nelle rifuggite dinamiche della provincia. Le diverse storyline della disposizione dei segnaposti fanno partire e ritrovano personaggi odiosamente immobili: non c’è espiazione, non c’è sconfitta, non c’è redenzione se non subordinata alle stesse identiche regole iniziali; la frustrazione diffusa tra i fiori e le fette di torta porta a comportamenti o meschini o patetici (perché la sorella meno bella della sposa in virtù solo della sua non-avvenenza deve innamorarsi di chiunque le si sieda a fianco solo perché le presta un minimo di attenzione?). Reificato negli oggetti, nel trucco e nei costumi c’è quell’impalpabile “qualcosa che non va”, a partire dall’insensato abito da sposa fino ad arrivare all’atmosfera da festa nel refettorio, alla frettolosità con cui si chiudono alcune scene-chiave (il ritrovarsi nonsense di marito e moglie prima e dopo la notizia della gravidanza), all’ostinatezza scorretta e seriale delle single e delle sposate traditrici o tradite. La morale è scolastica: hai sempre una scelta, il destino lo puoi cambiare. Queste “scelte” però sono sempre dei paletti predefiniti (il matrimonio a tutti i costi, che prescinde l’amore), meccanici surrogati di spontaneità, assoluzioni sbrigative, al punto tale che quei segnaposti invece che rimescolarli viene voglia di gettarli fuori dalla finestra, in un prato in cui gli invitati siano costretti a scontrarsi e incontrarsi davvero, e con piena coscienza dell’altro oltre che di sé stessi.

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