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5/10

Aspirante vedovo regia di Massimo Venier

Commedia
recensione di Alice Grisa

L'imprenditore edile Alberto Nardi è un uomo poco abile negli affari e sommerso dai debiti.

Ma il suo problema più grande è la moglie Susanna, che con una fideiussione potrebbe temporaneamente salvarlo, ma lo considera uno sciocco e non perde occasione di umiliarlo in pubblico. Quando la donna fa perdere le sue tracce a seguito di un incidente aereo, Alberto comincia a pensare che "essere vedovo" potrebbe portargli molti vantaggi.

La metro è bloccata. Uno si è buttato di sotto”

“Ah… beato lui!”

Era il gioiellino Generazione 1000 euro di Massimo Venier , dove la pioggia di umiliazioni dei ragazzi di un Paese annientato dalla crisi erano dipinte con giocosa levità.  Anche i suoi precedenti brandizzati Aldo, Giovanni & Giacomo, da Tre uomini e una gamba a Chiedimi se sono felice, esprimevano uno stile di regia tanto personale quanto contestualizzato in modo coerente nella storia del cinema italiano, la terra di mezzo tra risata amara, cinismo e dramma dietro l’angolo.

Se un regista rispecchia una società, Venier ha sempre fatto l’effetto di una coca light italiana, easy ma senza troppo zucchero, un narratore disinvolto che non perde di  vista il senso.

Qui però, misurandosi con il politically scorrect di Dino Risi (ma il vero politically scorrect, non quello ipocrita di adesso con la lezioncina finale) fa una scivolata che non è altro che, simbolicamente, la sconfitta di un’epoca rispetto a quella dei predecessori.

Posto che un remake non è di per sé una sconfitta annunciata (alcuni hanno addirittura superato il film di origine per taglio, tocco e maestria), Aspirante vedovo non regge il confronto con Il vedovo (Dino Risi, 1959) da cui si autofotocopia in un’operazione il cui scopo sembra il puro confezionamento commerciale di una sceneggiatura nata perfetta da riproporre con nuove macchine da presa e nuovi attori per riempire le sale di spettatori paganti (o forse aveva la più nobile finalità di far conoscere, tramite un’opera mediocre, la genialità del film-master?).

Si tratta di confrontare Luciana Littizzetto, iperesposta e ipermacchiettizzata, e Fabio De Luigi con Franca Valeri e Alberto Sordi, due fuoriclasse nella loro unicità, ma il problema non è solo questo. È anche questo. La pellicola 2013 commette fondamentalmente due errori: il primo, culturale, di strillare una storia che nel 1959 passava molto più garbatamente sottotraccia. Nel film di Venier c’è un’enfasi eccessiva sui toni, i gesti, le battute, mentre ne Il vedovo è tutto così fine e calibrato (a partire dalla recitazione composta di Franca Valeri) da far ricomporre allo spettatore il non-detto e il non-mostrato; non c’è bisogno di andare fino in fondo, basta accennare. Lo spettatore coglie, collega, capisce. La seconda sceneggiatura ricalca la prima in modo fin troppo fedele, eppure qualcosa nel remake s’inceppa: sarà la minor fluidità dei movimenti, delle espressioni, la risoluzione finale che lascia un vago senso di inappagamento, ma la scrittura di Dino Risi, Dino Verde, Rodolfo Sonego ecc. non ha un momento di troppo, non ha un calo di tensione, una battuta fuori posto.

Il secondo errore, molto più grave, è la scelta di non riscrivere una storia ambientata negli anni ’60 riadattandola al lastrico del 2013. Bisognava essere coraggiosi, distruggere tutto, isolare i princìpi fondamentali del racconto e ricostruire una cosa nuova. Invece tutto suona come anacronistico: la ricchezza di questa Susanna (Agnelli?) di Torino , l’amante sciocca con famiglia veneta al seguito (non ce n’era bisogno, all’epoca delle baby squillo e degli scandali di Minetti & company, in cui già a quindici anni le loro trame tutte se le preparano da sole), gli amici esageratamente borghesi, la cattiveria eccessiva della protagonista stessa.  Si intravede qualcosa del millennio nuovo (i pranzi nei contenitori di plastica degli impiegati di periferia, gli operai rumeni e non più semplicemente “italiani-proletari” – perché ormai non esistono più, nessuno vuol fare l’operario, nessuno ha soldi ma tutti postano su Facebook le loro foto con bottiglie di Moet - o l’eliminazione del momento “Pellicciagate”) ma è davvero troppo poco. Alberto Nardi, il marito, poteva essere sostituire il Commendatore trafficone Sordi con un personaggio-prodotto dei nostri tempi che fosse vittima e al contempo colpevole.

Di fondo rimane un’opera che non si esime dall’essere inutilmente buonista, con un punto di vista che propende molto più per il marito aspirante vedovo che per la moglie, dipinta come un’esagerata megera. Proprio in questo snodo consisteva la magia dell’opera di Risi: quel sorriso amaro di fronte alla stupidità (di lui) che soccombe sotto i colpi della sagacia rassegnata (di lei) e quell’ironia nera che riesce a bypassare l’inflazionata compassione.

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