Hitchcock regia di Sacha Gervasi
BiograficoLa genesi, la produzione e la distribuzione di Psycho nel 1959 dal punto di vista del rapporto tra Hitchcock e la moglie Alma.
C’è solo una parola per Hitchcock, ed è genio. Il suo cinema è un’iconoclastia mainstream, frammenta la struttura narrativa classica ma è accessibile a tutti. Le fobie di Marnie, l’ossessione “kimnovakiana” di James Stewart, la bara/cassapanca di Nodo alla gola, il finale di Intrigo internazionale sul monte Rushmore sono quei film che si collezionano nella vetrinetta dei blu ray ma che allo stesso tempo si guardano ogni volta che passano in televisione.
Se Hitchcock per tutti i nati dopo la sua morte è una specie di figura mitologica del cinema (se non, per molti, il cinema stesso), il biopic di Sasha Gervasi può sembrare dissonante nel coniugare epicità e realismo (con una netta propensione per il secondo). Hitchcock è, per la prima volta, contestualizzato e calato in una vita banalmente normale,tra rose da potare, colesterolo, alcool, sigari, macchine, un bagno nella vasca bollente, un bagno in piscina, i cartoni animati che si vedono in televisione durante l’influenza (Addirittura! Non può essere così normale!). Si parte con i toni della commedia per poi arrivare al dramma e alle allucinazioni ipertrofiche (i lati oscuri di Hitchcock, come gli istinti violenti che si esprimono nelle visioni dello psicopatico Ed Gein, che ispirò la figura di Norman Bates), il tutto in un arco di tempo che segue la genesi, la stesura, i problemi di finanziamento, le riprese, il montaggio e la distribuzione di Psycho; il percorso porta a considerare che sovvertire le regole dell’orrore (come uccidere la protagonista dopo 30min) soddisfa la sete di violenza e morbosità del regista come dello spettatore. L’impressione generale è che se in un biografico conta soprattutto la scelta di come raccontare, qui la chiave di lettura sviscera l’umanità del grande regista, ma solo e univocamente dal punto di vista del rapporto con la moglie Alma.
“Ero il suo capo, poi mi ha chiesto di uscire” racconta lei, e denota molto chiaramente il tipo di rapporto, che parte da una profonda stima intellettuale-artistica per poi declinarsi nei più tradizionali attaccamento, complicità, affetto e gelosia. Secondo il racconto di Gervasi (tratto dal libro Come Hitchcock ha realizzato Psyco di Stephen Rebello) Alma non si limita a dare suggerimenti al marito, ma interviene nel processo filmico dal momento del concepimento dell’idea a (soprattutto) quello del montaggio, che ha il merito di rivoluzionare una pre-visione poco gradita dalla Paramount. Nel frattempo la coppia è in tensione per la gelosia (di lui per un amico mediocre sceneggiatore, di lei per tutte le attrici bionde e ingenuamente provocanti che il marito dirige nelle sue pellicole), ma il tutto si risolve con la solita chiosa “dietro un grande uomo…” che risulta davvero troppo riduttiva per interpretare un maestro come Alfred Hitchcock.
Alcuni accenni a un discorso di voyeurismo legato alla figura del protagonista (che ama spiare dalle serrature, come da angolazioni particolari) potrebbero tradurre una tesi sul suo cinema: guardare, osservare senza essere visti, un elemento ricorrente da La finestra sul cortile a La donna che visse due volte e, naturalmente, Psycho: forse morboso, ma alla fine è la stessa cosa che fa uno spettatore quando va al cinema, o quando guarda un reality. Purtroppo però si tratta solo di cenni, e la maggior parte del documentario si orienta sulle liti e riappacificazioni tra Alfred e Alma, sicuramente godibili ma non esaurienti. La fotografia è troppo patinata (ok che è la Hollywood sfavillante degli anni ’60, ma sembra un paradiso artificiale), mentre gli attori, nonostante sembrino quasi ostacolati da una scrittura troppo rigida, sono notevoli: Hopkins è generalmente somigliante ed Helen Mirren, Scarlett Johansson e Jessica Biel sono un validissimo contraltare.
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