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10/10

Repulsion regia di Roman Polanski

Horror
recensione di Simone Coacci

Carol Ledoux vive a Londra, nell’appartamento dove sua sorella si fa mantenere da un uomo sposato. Entrambe emigrate da un paesino nella campagna belga, in memoria del quale conservano una vecchia foto dove si vedono anche i loro genitori. Carol lavora nel centro estetico di Madame Denise, sorta di opificio della cosmesi nel quale sfilano ad un ritmo infernale flosce signore dell’alta società che s’illudono di ritrovare la verginità della loro derma. Carol è bionda, giovane e bella. Tutti gli uomini che incrocia sono inesorabilmente attratti dalla sua innocenza e dal suo candore. Lei, però, è terrorizzata da loro. Sfugge. Si reclude. Lo spazio chiuso e accogliente della sua modesta residenza condominiale è l’unico antidoto alle sue paure, l’unico rifugio dalle insidie del mondo esterno. Ma quando la sorella e il suo amante la lasciano sola per andarsene in vacanza in Italia, la situazione precipita. Prigioniera dell’appartamento vuoto, Carol è preda di incubi e allucinazioni che assumeranno sembianze e corporeità via via più spaventose, fino ad inghiottirla in un’ assurda spirale omicida.

La follia fa paura perché sapete che voi arrivate a voi stessi” dice l’autore di Repulsion, il grande regista Roman Polansky. E il film, opus numero tre della sua celebrata carriera, girato a Londra nel 1965, è una discesa negli abissi di una mente divorata da complessi di natura inconscia, la cui ripulsa della maturità sessuale, il desiderio di conservare intatta la percezione infantile di sé e del proprio corpo, sfocia, nell’isolamento imposto dalla progressiva disgregazione dei rapporti e delle abitudini rassicuranti che edificano il perimetro della propria timida diversità, in un lucido incubo espressionista dove l’immediata simbologia psicanalitica hitchcockiana incontra le sabbie mobili del senso e della realtà di cui è intrisa la poetica kafkiana.

Com’è tipico nel suo cinema, Polansky raffigura personaggi claustrofobicamente irretiti in interni che si fanno di volta in volta più soffocanti, quanto mai efficace metafora artificiale ed architettonica degli stati di alterazione della mente, gioca attraverso di loro una partita solipsistica e disumana, quasi fossero cavie in un esperimento pisco-sociale sfuggito di mano, e, nella seconda parte, trasfigura esteticamente, col passare dei minuti e l’onirico avvicendarsi delle sequenze, le credenziali realistiche della trama e le chiavi di lettura a sostegno dello spettatore.

Le acque s’intorbidano, le prospettive s’accavallano e si dissociano alternando, nella descrizione del delirio omicida e paranoide della protagonista, il punto di vista oggettivo (con una prevalenza di inquadrature in campo medio e lungo che riprendono Carol come una falena smarrita che cozza contro le pareti, spoglie ma all’apparenza inoffensive, del suo riparo, un utero protettivo, un grembo materno ormai violato tanto dalla sua condotta autolesionista e maniacale, quanto dalla mano incosciente di chi vorrebbe aiutarla - lo spasimante Colin - o approfittarsi di lei, come il padrone di casa, e che pagherà l’intrusione con la vita) a quello soggettivo (le aggressioni e gli stupri allucinatori che subisce in camera da letto, le mani che si sporgono dalle mura liquefatte per spogliarla del lenzuolo virginale in cui è avvolto il suo corpo pallido e tremante, le faglie e le crepe che si aprono sui muri e sul soffitto e minacciano di far crollare l’intero edificio della sua psiche), per confondersi e a contraddirsi fino al punto di non ritorno (la geniale inquadratura, falsamente oggettiva, di  Carol che, richiudendo l’anta di un mobile a specchio, scorge per un istante il volto riflesso dell’aggressore alle sue spalle, un’entità che la successiva panoramica ci mostra di nuovo come patologico frutto della sua proiezione, ma oramai chi se la sentirebbe più di affermarlo con certezza?) in cui il principio d’ambiguità regna sovrano.

Ancora Polansky: “Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in quest’altro. Voglio che non sia sicuro di niente. È questa la cosa più inquietante: l’incertezza”. Non ci sono punti fermi, dunque, né principi di riferimento universali, in Repulsion, lo spazio rifiuta le logiche newtoniane e i giorni, le ore, persino i minuti, sospendono il loro meccanico scandire per allagarsi a macchia d’olio nella palude ristagnante del tempo interiore della protagonista.

Così anche i tentativi di sottoscrivere un’interpretazione univoca all’inquietante vicenda ricadono nel mare del relativismo, naufragano tra i flutti delle ipotesi: da quella psicanalitica che vorrebbe Carol vittima di un rapporto edipico irrisolto col padre (a cui alluderebbe la sequenza finale, quando la macchina da presa, spostandosi dal capannello di persone accorse al capezzale di Carol e passando ossessivamente in rassegna gli oggetti sparsi per la casa, si sofferma sulla foto di lei bambina, sorridente accanto alla famiglia riunita di fronte ad una casa di campagna, fino a zoomare sul suo occhio, lo sguardo amorevolmente proteso verso il genitore) a quella più materialista e sociologica che riconduce l’ascesso di follia della giovane e la deriva criminale dei suoi comportamenti ad una reazione nei confronti dell’assedio fisico e psicologico a cui è sottoposta dalla logica disumana della società borghese che vorrebbe entrare in possesso del suo corpo, infangarne il contegno infantile, corromperne l’integrità (come forza lavoro, come fonte di lucro o come feticcio sessuale). Non c’è trucco e non c’è inganno.

Il disorientamento dello spettatore è lo stesso dell’autore di fronte alla battaglia che gli esseri umani conducono ogni giorno per confrontarsi con la sofferenza dell’esistenza, dell’intima e solitaria scissione dell’io, e con gli assurdi rimedi del vivere sociale. L’unico dato su cui possiamo trarre una conclusione inequivocabile e condivisa è quello estetico: con Repulsion il regista, poco più che trentenne, realizza una dei massimi archetipi del suo cinema (la cui perfezione formale ed efficacia emotiva sarà eguagliata forse soltanto in Rosemary’s Baby e Chinatown), attraverso una regia che concilia abilmente gli stacchi nervosi delle “nouvelle vaguesest-europee, i piani sequenza di matrice neorealistica, la statuaria profondità ottica dell’espressionismo e le deformazioni surrealistiche di Bunùel.

E che sublima il tutto, in maniera eccelsa, nella direzione della protagonista: una giovanissima Catherine Deneuve (in una sorta di metamorfico contrappasso filmico della sua figura di ex ninfa di Vadim e futura di Bella di Giorno) che, con i suoi sguardi remissivi e sperduti, repenti nel mutarsi in vitreo e selvaggio furore omicida, con la sua gestualità goffa e contratta da bambina che protegge il suo corpo d’adulta come farebbe con quello d’una bambola troppo cresciuta, tratteggia forse il miglior ritratto femminile della sua carriera. Una menzione speciale per la colonna sonora di Chico Hamilton che mescola in modo volutamente caotico ed informale jazz modernista, musica concreta e squarci di elettronica ante litteram.

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Voto degli utenti: 8,1/10 in media su 8 voti.

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Peasyfloyd (ha votato 8 questo film) alle 12:01 del 15 luglio 2009 ha scritto:

ottima recensione per un gioiello del cinema psycho-surrealista. La Deneuve è sublime, l'opera è claustrofobica da impaurire e polanski è sempre polanski, poco da dire, anche se credo che i capolavori suoi da te citati siano superiori a questo film

Lezabeth Scott (ha votato 10 questo film) alle 11:49 del 16 luglio 2009 ha scritto:

Film incredibile e straziante. Vi assicuro che per una donna, identificarsi con la protagonista è una cosa quasi insostenibile. Impossibile da spiegarsi a parole, nemmeno con una recensione splendida come la vostra, è assolutamente da vedere. O da astenersi i deboli di nervi.

Marco_Biasio (ha votato 10 questo film) alle 22:50 del 18 febbraio 2010 ha scritto:

Una Catherine Deneuve bellissima e schizofrenica che interpreta (interpreta? oserei dire più vive) una discesa negli inferi più bui della psiche umana. Simone enciclopedico.

arkadin67 alle 23:29 del 4 maggio 2014 ha scritto:

Ottima recensione. Lo invito solo a rivedersi la sequenza finale. Se quello è uno sguardo amorevole di una bambina sorridente, io sono uno zombie...