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10/10

Eraserhead regia di David Lynch

Horror
recensione di Marco Biasio

Henry Spencer (Jack Nance) è un tipografo che vive e lavora in una città alienante e disumanizzata, teatro di un'industrializzazione su larga scala che ha pesantemente influito sul carattere e sulle abitudini dei propri cittadini. Una sera viene convocato dalla sua fidanzata, Mary X (Charlotte Stewart), per una cena a casa sua. Pare che, a sua insaputa, essa abbia partorito un figlio, bimbo prematuro dalle fattezze aliene ed orripilanti. La gestione del bambino, nell'appartamento di Henry, vivrà di traumi ed incubi, fino a che Mary non deciderà di lasciare il neonato col compagno che, sempre più spaesato, cercherà di sfuggire all'infernale presente scivolando tra le anse del suo radiatore, dove si nasconde - sul palcoscenico di un teatro di scena - una donnina dalle guance tumefatte...

C’est ne pas un compte rendu. Così, tanto per cominciare, in barba ai detrattori di Magritte. Questa non è una recensione. Avete mai letto, d’altro canto, una recensione su “Eraserhead”? Mi spiego: non un articolo, non un commento… una recensione. Proprio. Beh, io no. Ne sono state scritte tante, forse troppe, in ogni tempo e in tutte le lingue, dagli Appennini alle Ande… Ma cosa è stato scritto, di grazia, su di un film che non può e non vuole – non l’ha mai voluto – essere recensito? Ne leggerete ovunque, ma si tratta di un blob, una congerie in(de)finita di sensazioni, esaltazioni, punti di vista, soprattutto interpretazioni. Ecco: chi è sprovvisto del filtro, della capacità interpretativa, del giudizio critico non potrà evitare di subire (anziché vedere, attivamente) “Eraserhead”, con il risultato di rintontirsi alla nausea con esso, di sentirsi finanche arrabbiato, deluso, trascurato. Lo odierà alla morte, lo perseguiterà, lo smonterà crudelmente, pezzo per pezzo, con il classico atteggiamento, caustico ed iconoclasta – un amore rancido, andato a male? – di chi, di fronte a “The persistence of memory” di Dalì, non è in grado di vedere altro che degli orologi sciolti, ricoperti da formiche, appesi ad alberi e stesi su ritratti capovolti e dissimulati dello stesso pittore, così simili a volatili dormienti. “Eraserhead” è, in questo, profondamente post-surrealista: nasconde simboli dietro le immagini, significati ulteriori dietro la facciata, o addirittura nessun significato apparente: ma, come detto, “post”, lontano dall’elitarismo e dal borghese manto di incomunicabilità tipico delle caste intellettuali, per immergere il proprio concetto – e ciò che ne deriva – nella realtà fisica e strutturale della monotonia giornaliera.

Per chi non ha idea di ciò su cui stiamo vaneggiando, un passo indietro. Il quando è il 1972, il dove è “quel buco chiamato L.A.”, il chi è David Lynch. Quel Lynch, sissignori. Ma chi era, quarant’anni fa, quel Lynch, se non uno squattrinato diplomato della Pennsylvania Academy of Fine Arts di Filadelfia, matricola dell’American Film Institute, qualche corto ed un paio di videoinstallazioni alle spalle, (prima) moglie e figlia a carico? Come dare fiducia ad un sognatore del genere che, un giorno – o forse non è stata solo questione di un giorno… – si presenta all’AFI, chiede un finanziamento per il suo primo lungometraggio e, come garanzia, allunga una ventina di pagine consunte e malamente dattilografate? Lo script, in pratica. Che è troppo corto, lo si capisce, e non dà indicazioni, né tantomeno rassicurazioni in merito. L’istituto accetta, riluttante, poi si ritira in corsa: qualcuno ha dato un’occhiata a “The Grandmother” (1970), altri magari hanno sentito parlare di “Six Figures Getting Sick (Six Times)” del 1966, di ciò che sta in mezzo nessuno sa nulla, e se lo sapesse non l’avrebbe comunque detto. Roba strana, sperimentale. Questo giro sembra diverso. C’è qualcosa sulla nascita, qualcosa sulla famiglia, una quinta che assomiglia ad un sipario teatrale spalancato su un baratro, un tizio di nome Jack Nance – il protagonista, dicono – che è pettinato in maniera improponibile, la volontà di girare in bianco e nero (quanto? Quanto basta). I tempi di realizzazione sono stimati intorno ai nove mesi, ma presto cominciano a dilatarsi, disperatamente. L’impresa sembra fuori dalle possibilità del regista, tanto vulcanico sul piano delle idee quanto, a conti fatti, ancora scarsamente pratico del fabbisogno tecnico. La meta, almeno, quella resta, e diviene un obiettivo ossessivo, una crudele divinità cui sacrificare i risparmi, l’onore, la casa, il matrimonio. Frattanto gli anni passano, il nome di Cronenberg comincia a girare negli ambienti giusti, esplode Spielberg, la generazione del dopoguerra lascia il passo, Forman dirige il formidabile “Someone Flew Over The Cuckoo’s Nest”, Kubrick chiude un’era per aprirne un’altra, Buñuel spara le sue ultime cartucce dritto nel cervello della middle class, l’horror delle periferie si tinge di politico e muta in slasher, Eastwood mira al cuore di altri Ramòn, Pasolini viene assassinato, il cinema europeo vive forse il suo ultimo periodo di grande sovraesposizione. Nel complesso di questo Risiko in mutazione perpetua ed irrefrenabile, Lynch non esiste: è il perfetto sconosciuto, director di un perfetto film sconosciuto dal titolo sconosciuto, senza budget, quasi senza cast, che verrà completato – in un crescendo di sacrifici – solo sei anni dopo. È il 1977, ed “Eraserhead” è pronto per varcare la soglia delle grindhouses, le uniche che si dimostrano disponibili a proiettare qualcosa che tutti gli altri si rifiutano, persino, di visionare.

Su “Eraserhead”, nel corso degli anni, è nata una quantità abnorme di leggende metropolitane, forse inferiore solo all’aneddotica che circonda, dalla sua uscita, la celebre “banana” dei Velvet Underground. Che il maestro Kubrick amasse titillare il cast di “Shining” con visioni costanti, concentrate della pellicola, una delle sue predilette (non pensiamo altrettanto per gli attori…). Che Terrence Malick cercasse in tutti i modi di supportarlo, proiettandolo al suo sponsor finanziario nel tentativo di racimolare fondi, peraltro non riuscendoci. Che la figura del “bambino” (abbiamo forse spoilerato qualcosa a qualcuno?) fosse stata ideata animando, con il più classico dei trattamenti visuali, un feto di mucca imbalsamato, o forse un coniglio spellato. E poi, appunto, le interpretazioni: Henry Spencer è un uomo sterile, ciò che si vede non esiste perché è frutto della mente sconvolta di Henry Spencer, che manipola la sua mente ed i suoi ricordi così come un uomo pieno di cicatrici manovra strane leve in un prologo amniotico e delirante, il “figlio” non è di Henry Spencer, la donna nel termosifone è la parte desiderativa, l’inconscio di Henry, tumefatta perché impossibilitata ad essere raggiunta, o magari perché un suo perseguimento nasconde un atroce misfatto, Henry Spencer si trasforma gradatamente in suo “figlio” agli occhi di vicine conturbanti, le piantine rinsecchite e senza vaso sulle mensole di Henry Spencer rimandano alla “secchezza”, all’infecondità di un altro albero, il suo, quello genealogico. E così via. Lynch si è sempre rifiutato di fornire qualsivoglia interpretazione al film, per “Eraserhead” più che per qualsiasi altro suo lavoro, ed ogni illazione diviene così verità. Più o meno. La tentazione di interpretare Lynch – anche, e soprattutto, verbalmente – è il cancro che da sempre impedisce obiettività alla gran parte degli articoli scritti su di lui, ma è anche la spinta propulsiva, il motore che mette in azione la curiosità, la voglia di mettersi alla prova, di sfidare i propri limiti e di farlo sapere al mondo.

Lynch stesso gioca con il fuoco che lui stesso ha creato. Si mette in gioco, come uomo ancor prima che come artista, e crede a tal punto nel suo progetto da navigare a vista, contro tutto e tutti. “Eraserhead” è il frutto perfetto di quella lucidità ideologica e di quel pessimismo abissale che soli possono essere generati dalla mente (!) di un uomo ferito nel profondo, sull’orlo di una crisi di nervi, senza più risorse economiche né serenità personale. È stato minuziosamente osservato, in sfere accademiche, come “Eraserhead” trasformi quanto di più stereotipato e confortevole nell’immaginario comune, la famiglia, in un inferno che divora dall’interno l’integrità ontica di un essere umano. Non è un concetto innovativo, a ben vedere e, anzi, proprio negli anni di lavorazione del lungometraggio l’America del cinema indipendente saccheggia, con gusto necrofilo (illuminante l’esempio di “The Texas Chainsaw Massacre”), il cadavere di un’istituzione sociale la cui marcescenza esala fra i trafiletti di cronaca nera, nel riflesso di specchi della cinepresa di “Psyco”, negli estremi strascichi post-sessantottini che non rinunciano a negare l’immagine dei padri e frantumare il sogno hippie. L’incubo lynchiano va però oltre e, alla violenza visivamente estrema del circolo horror low-cost, sostituisce l’eleganza formale di chi ha studiato a fondo i meccanismi della pittura, prima di girare con l’obiettivo in spalla, e conosce a menadito il meccanismo di collegamento inconscio, di simbolismo metaforico e pregnante. Non occorre mostrare tutto e subito. Si può anche decidere di mostrare niente e subito, nascondendo dietro al “niente” il proprio alter ego, il doppelganger ante litteram. David Lynch entra, con la sua esperienza, nel film, e racconta di tutta la sua frustrazione verso la prigione del nucleo familiare, terribile vincolo negli anni errabondi e girovaghi dell’infanzia e della prima adolescenza prima (causa lavoro itinerante del padre), asfissiante cappio al collo che si stringe, anziché allentarsi, nel marasma delle difficoltà poi (il divorzio da Mary Fisk, la perdita della casa). Nemmeno gli animali, con la loro cieca obbedienza alla legge dell’istinto, sono al sicuro dai rischi della paternità. Dal creare una creatura simile a sé – primo straniamento – ma mai completamente – secondo straniamento –, dotata di autonomo pensiero e facoltà di ribellarsi al proprio genitore – terzo, e più forte, straniamento –, sventrando con ferocia compiaciuta la fragile capanna famiglia.

Chiave di “Eraserhead” è, paradosso per un lavoro così poco parlato, una parola che descrive tutto ciò che non è parola: l’iconografia. Dall’iconografia tutto si snoda, a partire dalla scena centrale della pellicola, saggio di bravura tecnica ed eccezionale visionarietà realizzativa: la cena dei fidanzati a casa dei genitori di lei. Henry Spencer (Jack Nance) è così introverso, insicuro, forse anche un po’ ritardato, da non riuscire a sostenere un minimo di conversazione con nessuno, da non riuscire ad elevare la propria voce sopra il marasma della progenie industriale che sbuffa, stride, stritola, senza un secondo di pausa: figuriamoci parlare di avere un figlio. Eppure è proprio il motivo per cui, dopo uno iato di qualche tempo (un paio di giorni? un mese? vent’anni? Impossibile saperlo: gli orologi a cucù hanno tutti una sola lancetta…), viene convocato dalla compagna, Mary X (Charlotte Stewart). Inutile nascondersi: il pretesto di scenografia assorbe connotati, proporzioni, linguaggi biblici. La cena è un’Ultima Cena a tutti gli effetti, presagio di catastrofe dove tutti si parlano addosso, anche con i silenzi, non ascoltandosi, e la tentazione di Henry/Nance è quella di una vampiresca madre (Jeanne Bates) che lo attira in un cantuccio, con la scusa di parlare della figlia, e lì seduce carnalmente l’uomo, impotente fisicamente e psicologicamente ai suoi assalti. Mary è una Maddalena bionda, ossuta, piagnucolante ed epilettica, la degenerazione - con dodici anni di ritardo - della meravigliosa, angosciante, corrosiva Deneuve del polanskiano "Repulsion": suo padre un Giuda del Nuovo Millennio, vetrificato nel suo sorriso svenevole da circostanza sociale; il cibo conviviale, polli che si muovono e sanguinano. Un incubo su cui aleggia la catastrofe di un tremendo temporale, i cui tuoni mandano in cortocircuito la squallida illuminazione elettrica dell’abitacolo e spaventano a morte persino una cucciolata di cani frenetica, ansante, malata anch’essa. Un figlio abominevole, mostriciattolo prematuro dal testone enorme e privo di arti, è il risultato di un amore (davvero consumato?) senza futuro e senza speranza. La convivenza forzata dei due li farà separare con ruvidità, una volta per tutte, e farà scivolare Henry nel limbo della pazzia.

Scomponendo l’inglese, salta fuori che il poco opportuno sottotitolo italiano, “La mente che cancella”, è in realtà una fedele rielaborazione della semantica originale, dacché “eraser” è, comunemente, proprio la gomma per cancellare. “Head” è, naturalmente, quella di Henry, decapitato in un surreale teatrino nascosto nel termosifone di camera sua e presieduto da una donnina bionda, con orribili malformazioni alle guance, perennemente sorridente nel suo cantare, ammiccare, accennare passi di danza e stritolare sotto i tacchi spermatozoi giganti piovuti, sul proscenio, dall’alto. La testa volerà tra le mani di un piccolo vagabondo che, in cambio di qualche spicciolo, la porterà ad una fabbrica di articoli di cancelleria, dove verrà trasformata in gommini per matite. Il tipografo non ha, a quel punto, più nulla da perdere: una fidanzata che l’ha abbandonato, un “figlio” ripugnante fonte di continue preoccupazioni, nessun parente in grado di aiutarlo, una stanza che è insieme sarcofago e catacomba. La sua creatura, nel suo essere imbelle, inerme, apparentemente inoffensiva, è riuscita infine a sopraffarlo e a sottrargli il lavoro, la famiglia, l’amore, le energie vitali. La narrazione lynchiana si fa sempre più ossessiva, cupa, schizofrenica, nell’incalzare distonico delle musiche e nell’alternarsi tagliente, irregolare della bicromia. Fino al crollo ultimo di Spencer: un paio di forbici squarciano non solo il ventre del suo bambino, ma anche la sua intera esistenza, dividendola in un prima e un dopo. Dove il dopo è in Paradiso, in uno spazio galleggiante traboccante di candida luce, e nient’altro. La pace dei sensi, il vuoto che tacita la geenna di una terra sconvolta dal caso e dal suo animale più rappresentativo. “Eraserhead” si chiude dove tutti gli altri film di Lynch non riusciranno, concettualmente, a fare: nel nulla.

C’est ne pas un film.

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Voto degli utenti: 9,2/10 in media su 11 voti.

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Paul Ghetti (ha votato 10 questo film) alle 13:47 del 10 aprile 2015 ha scritto:

Complimenti. Rendere l'idea di questo film, recensirlo, criticarlo per poi presentarlo nella sua essenza ultima, il nulla, è impresa titanica e ci sei riuscito alla perfezione, complimenti! Un film visionario, lucido nella sua follia, metacinema per antonomasia, perfetta fusione tra filmico e profilmico. Io ebbi la stessa sensazione di straniamento quando vidi "Society" di Brian Yuzna, solo che lì l'horror metafisico disvelava la voglia di raccontare la marcia società attuale, in "Eraserhead", si assiste ad un tentativo di raccontare e mettere in immagini la mente umana ed i suoi recessi. Inarrivabile. Bravo!