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8/10

Il Grande Inquisitore regia di Michael Reeves

Horror
recensione di Simone Coacci

Inghilterra, 1645. Mentre infuria la guerra civile tra i realisti di Carlo I e i seguaci di Cromwell, in nome di quest’ultimo il Grande Inquisitore Matteo Hopkins e il suo aiutante John Stearne battono il paese dilaniato e senza legge a caccia di streghe e di "papisti". Non è la fede, però, ad animarli ma soltanto il proprio tornaconto (c’è una taglia di dieci sterline per ogni esecuzione) e la soddisfazione di istinti perversi. Quando vengono chiamati a Brandestone, nel Suffolk, da alcuni popolani bigotti e superstiziosi che accusano il reverendo John Lowes di aver venduto l'anima al demonio, Matteo fa impiccare il sacerdote e approfitta di Sara, sua nipote. Richard Marshall, fidanzato della donna e soldato nell'esercito di Cromwell,li insegue ma questi riescono a fuggire. Richard fa quindi allontanare la donna inviandola a Lovenal. Nominato capitano e assegnato ad un’importante missione proprio nei pressi di Lovenal, egli si ricongiunge a Sara e da lei apprende che Hopkins e Stearne si trovano anch'essi in città. dove hanno appena condannato al rogo l’ennesima innocente. Richard, accompagnato da una piccola scorta di soldati, è determinato a portare a termine la sua vendetta. Ma i due criminali, sentendosi ormai braccati e in pericolo di vita, lo precedono, sequestrandolo assieme a Sara con l'accusa di stregoneria. Condotti nelle segrete di un castello, i due innocenti saranno costretti a subire le atroci torture che l’inquisizione riservava alle proprie vittime…

Non aveva ancora compiuto 26 anni, l’autore de “Il Grande Inquisitore” l’inglese Michael Reeves, quando fu trovato morto nella camera da letto della sua casa londinese a causa di un’overdose di alcol e barbiturici. Era il 17 febbraio del 1969. A molti (anche grandi) registi 25 anni bastano si e no per completare la scuola di cinema (o la gavetta, l’apprendistato, quello che è) e girare i primi corti. A lui sono stati sufficienti per diventare un mito. Oscuro e controverso quanto si vuole, ma pur sempre - anzi a maggior ragione - un mito. E, d’altro canto, la breve ma folgorante parabola di Michael Reeves nel cinema inglese di fine 60 è stata più simile a quella della rockstar maledetta ed eternamente giovane che a quella del misconosciuto e compianto maestro di B-movies.

Gli ingredienti per una tale somiglianza ci sono tutti: il talento precoce e giovanile , la creatività fervida e tormentata, i capelli lunghi e il viso magro, emaciato, da visionario della Swinging London, l’atteggiamento di sfida, la ribellione contro l’industria e le convenzioni del cinema di genere, horror in questo caso, il tentativo di rinnovare dall’interno la cornice tardo-hammeriana/cormaniana delle sue opere. Tre in tutto. L’ultima - questa - soprattutto. E, ciliegina sulla torta (si fa per dire, poverino), la morte prematura e un po’ misteriosa. Il rapporto ufficiale del coroner che definiva “accidentale” l’ingestione del cocktail fatale - i farmaci incriminati erano stati regolarmente prescritti a Reeves per curare l’ansia e l’insonnia che lo attanagliavano negli ultimi mesi di vita - lasciò, come spesso accade in questi casi, spazio ad ipotesi e illazioni. Suicidio? Omicidio? Non si sa. Una cosa, però, a distanza di più di quarant’anni, sembra quasi certa: se anziché sceneggiature e inquadrature avesse saputo maneggiare una chitarra, Reeves avrebbe potuto essere Brian Jones, Syd Barrett o, chissà, Marc Bolan.

Il cursus filmico che lo condurrà fino a “Il Grande Inquisitore” è rocambolesco ed avventuroso fin dagli esordi. C’entra parecchio anche l’Italia, ai tempi all’apice del suo filone gotico-orrorifico: Reeves è assistente alla regia di “Il Castello Dei Morti Vivi” (1964), stramba pellicola sul modello Hammer interpretata, fra gli altri, dall’immancabile icona Cristopher Lee e da un esordiente Donald Sutherland (!) e firmata da due registi italiani Luciano Ricci (uno dei produttori) e Lorenzo Sabatini (il vero regista) sotto pseudonimi inglesi, come andava di moda allora; quando quest’ultimo, colpito da un malore, deve abbandonare il film tocca a Reeves salvare la baracca e portare a casa le scene rimanenti. È poco più che un teenager ma se la cava così bene che, due anni dopo, lo stesso produttore decide di affidargli la sua prima “vera” regia: “La Sorella di Satana”, conosciuto anche come “Il Lago di Satana”, “The She-Beast” o “Revenge Of The Blood Beast” in lingua originale. Ancora una co-produzione anglo-italiana (girata in Italia), ancora un gothic-horror a bassissimo budget: è vero, si, che l’attrice protagonista è la divina Barbara Steele, regina indiscussa del gotico sessantesco, ma è altrettanto vero che Reeves (qui anche sceneggiatore) deve fare miracoli per concludere il film in sole tre settimane e che la stessa Barb, disponibile solo per un giorno, girerà la sua intera parte in 18 ore d’intensissimo lavoro.

Il risultato è, a conti fatti, più che dignitoso e incassa anche bene al botteghino, specialmente in Italia, dove questo genere di exploitation funzionava ancora alla grande. Pragmatico e genialoide, Reeves ha quindi  modo di mettere in luce tutto il suo talento con “The Sorceress” (titolo italiano fuorviante: Il Killer di Satana, forse per sfruttare l’assonanza col predecessore), la sua prima opera pienamente compiuta e personale, un fanta-thriller inquietante e psichedelico, in parte ispirato a “L’occhio che uccide” di Michael Powell, ambientato nella Swinging London del 1967 (uno degli anni di grazia della storia della musica rock, non a caso). Il budget è finalmente adeguato e la sceneggiatura (di Tom Baker e dello stesso Reeves) curata ed intelligente e il giovane regista-beat mostra una grande abilità, unita ad uno stile già maturo e personale, nel dirigere due mostri sacri del cinema internazionale come Boris Karloff e Catherine Lacey , oltre ad una stellina yè-yè dell’epoca, Susan George (la ragazzina filo-hippie e un po’ sgallettata di futuri cult-movie come Cane di paglia e Zozza Mary, Pazzo Gary).

 “Il Grande Inquisitore” (Witchfinder General, 1968), il suo lavoro più significativo, sarà purtroppo anche l’ultimo. Un maestoso testamento e un grande rimpianto per tutto quello che avrebbe ancora potuto dare alla causa dei generi prediletti e del cinema in generale.

Nonostante sia finanziata dalla AIP, la storica casa di produzione che ha inventato il concetto stesso e la formula di successo del B-movie moderno, in questa pellicola Reeves prende recisamente le distanze dai principali filoni horror del periodo: quello neo-classico della Hammer, quello bizzarro e plastico dell’apocrifo ciclo poeiano di Roger Corman e quello deviante e morboso del gotico italiano. Ispirandosi al romanzo omonimo di Ronald Bassett, Reeves azzera i cliché del genere per dare vita ad un impressionante melodramma naturalista e a tinte fosche, dove l’orrore, concreto e documentato, ha una precisa connotazione storica e filosofica. Un orrore che non risiede nell’eccezionalità di una mente aberrante e perversa, né in una minaccia esoterica e sovrannaturale, ma è la diretta conseguenza di un fanatismo ottuso e sanguinario, figlio della propria epoca, di cui tutti, ad eccezione di Richard e Sara, sembrano rendersi complici o quantomeno assoggettarsi.

Nessun rito satanico, dunque, nessuna strega vendicativa, nessuna letterale incarnazione del maligno come né “La Maschera del Demonio” e in tanti epigoni minori. Nessuna concessione alla mitologia demonologica. Il “Male” alberga unicamente fra le file del “Bene” (o di coloro che vi si fanno scudo), nell’esercizio crudele e totalitario di un mandato politico e religioso che Matthew Hopkins (Vincent Price), il “cacciatore di streghe”, e il suo irsuto e brutale assistente John Stearne (Robert Russell) hanno ricevuto direttamente dal generale Cromwell durante la Guerra Civile del 1645, che vede i seguaci di quest’ultimo in lotta contro la monarchia di Carlo I d’Inghilterra. Un abuso di potere che ha evidenti implicazioni sessuali - i due aguzzini, talvolta, risparmiano le malcapitate in cambio della loro sottomissione fisica e non nascondono un evidente piacere erotico nel torturarle ed ucciderle - e che rimanda più al De Sade di “Le 120 giornate di Sodoma” che ai classici della letteratura gotica e fantastica. Non a caso le scene di violenza - sevizie, interrogatori, “prove delle streghe”, impiccagioni, roghi - sono mostrate in maniera esplicita e dettagliata, senza filtri estetizzanti, ma con un puntiglio realistico da “museo delle torture” che all’epoca suscitò grandi polemiche e pesanti interventi da parte della censura (le parti tagliate spiccano per la diversa grana cromatica nelle copie restaurate in circolazione). Niente di più lontano dal sensazionalismo gratuito, tuttavia. Nel film di Reeves il sadismo dei protagonisti rafforza semmai la tensione morale della visione, l’evidenza del dolore induce repulsione e disagio nello spettatore, estraniandolo da ogni effetto catartico e spingendolo a rifletterne sulle cause, a guardare oltre la finzione.

Attraverso l’immaginario (in costume) del cinema del terrore della sua epoca, infatti, Reeves esplora il lato più oscuro e persecutorio del retaggio puritano ancora presente nell’Inghilterra moderna - pensiamo solo all’epoca Vittoriana, all’ affair Oscar Wilde, alla guerra civile in Irlanda, o al fatto che ancora fino agli anni 50 del secolo scorso il Regno Unito era uno dei pochi paesi democratici in cui il tentato suicidio e l’omosessualità potevano, a termini di legge, essere puniti con la reclusione in carcere, alla dialettica fra costumi conservatori e liberazione sessuale nei 60 - di cui il film si pone come metafora allucinata e specchio deformante. Macabro e senza lieto fine - l’urlo allucinato di Sara sui titoli di coda ci fa capire che l’orrore nella sua mente (e non solo) non finirà mai - come un’antica murder ballad, “Il Grande Inquisitore” mostra una direzione impeccabile per rigore formale, perfetta nel racchiudere un contenuto “eversivo” in una messinscena classica dove la calibrata ricostruzione storica si mescola ad un costruzione drammatica di grande impatto e ad un’estrema sensibilità paesaggistica. I boschi, le colline e le brughiere del natio Suffolk vengono catturati da Reeves da angolazioni inusuali, attraverso inquadrature di grande nitore e profondità (splendida la fotografia a colori di John Coquillon, che veniva dai documentari sulla natura e che negli anni 70 diventerà collaboratore fisso di Sam Peckimpah), rivelandosi, dietro l’apparenza maestosa e leggendaria, selvaggi e inospitali, minati da carestia e siccità. Lo specchio ideale degli istinti perversi che i personaggi celano dietro l’obbedienza e il fervore religioso dell’inquisizione.

Una considerazione finale va riservata al cast e all’ottimo lavoro sugli attori, quasi tutti provenienti dalla nobile tradizione del teatro inglese classico, sui quali Reeves lavora per sottrazione, prosciugandone l’impostazione solenne e traendone dei ritratti icastici e memorabili nella loro inquietante verosimiglianza. Su tutti, naturalmente, svetta la prova del grande Vincent Price con il quale Reeves - che per la parte avrebbe preferito il più duttile Donald Pleasance, il futuro Dr. Loomis di “Halloween” - ebbe non poche divergenze artistiche pur riuscendo, infine, a plasmarne il talento in modo consono alle esigenze espressive dell’opera. Un botta e risposta fra i due, con Price condannato a ripetere per l’ennesima volta la stessa scena mentre Reeves gli rimproverava la recitazione troppo sovraccarica, passerà agli onori delle cronache: Price:  “Figliolo, io ho fatto 84 film, tu quanti?” e Reeves: “Due. Ma li ho fatti bene, io”. Un talento ribelle e sfrontato, da rockstar del cinema, stroncato nel suo pieno fiorire, come purtroppo sappiamo (Reeves morì 8 mesi dopo l’uscita del film), ma celebrato al meglio in questo suo terzo e ultimo film: “Il Grande Inquisitore”, in retrospettiva uno dei migliori horror della storia del cinema inglese ed europeo.

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