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7/10

Straziami Ma Di Baci Saziami regia di Dino Risi

Commedia Italiana
recensione di Antonio Falcone

Roma, 1969. Durante  le celebrazioni della “Giornata folcloristica nazionale”, scocca il colpo di fulmine tra Balestrini Marino (Nino Manfredi) e Di Giovanni Marisa (Pamela Tiffin), uno sguardo e qualche parola sono sufficienti perché l’uomo, barbiere di Alatri, si trasferisca a Sacrofante Marche, il paese di lei. Il padre di Marisa, però, si oppone alle nozze, per cui i due sono pronti a gettarsi sotto un treno, ma l’intervento salvifico della divina provvidenza chiamerà a sé il genitore: la strada ora sembrerebbe libera, ma una “lingua sporca” insinua dubbi a Marino sulla purezza della fidanzata, la quale, sconvolta, fuggirà a Roma. Dopo alterne vicende i due si rincontreranno, peccato che Marisa sia ormai sposa di Umberto (Ugo Tognazzi), sarto sordomuto…

Straziami ma di baci saziami, a mio avviso, testimonia la capacità che aveva un tempo il nostro cinema di dar vita a qualcosa di diverso, nel caso specifico da quella che allora era l’impostazione tipica della commedia all’italiana, affidandosi ad una sceneggiatura estremamente valida (Age & Scarpelli) e ad una regia professionale come quella di Dino Risi, tra l’altro autore anche del soggetto, il quale asseconda, apparentemente, una linea ingenuamente pop già dal titolo (un verso della canzone Creola,’26, Riff, alias Luigi Miaglia), evidente anche nella fotografia e nel commento musicale di Trovajoli (intervallato da Io ti sento, cantata da Marisa Sannia).

La pellicola irride con sinuosa cattiveria la letteratura popolare, dal classico feuilleton ottocentesco per arrivare al cinema di Matarazzo, che si ciba proprio del citato genere, passando per le vie del melodramma, del fumetto e del fotoromanzo, modello evidente nella visualizzazione dei singoli avvenimenti, veri e proprio capitoli con tanto di didascalia. Colpisce, poi, l’inveterato cinismo, che si può apprezzare o meno, nel rappresentare le classi sociali che a tali fonti si abbeverano, improntando il proprio modus vivendi, descrivendo un’Italia in fase post boom economico, ma ancora sospesa tra tradizione contadina, presente nei piccoli centri, e modernità urbana, con già qualche traccia d’alienazione o comunque difficoltà d’integrazione.

Difficile resistere, ridendo amaro, alla scena in cui i due innamorati declinano i versi de L’immensità di Don Backy come fossero quelli dell’ Infinito leopardiano, disquisendo su tutti i possibili rivoli esistenziali, o la visualizzazione della  forzata separazione immedesimandosi in una scena Il dottor Zivago. Ma ve ne è anche per  il pietismo d’accatto, una soluzione standard per ogni problema, messo in atto dai centri d’aiuto, impersonati da un medico cui si rivolge Marino ormai devastato dai medicinali, non dimenticando, infine, la rappresentazione, senza pietismi pelosi, il politically correct è ancora di là da venire, del sordomuto offerta da un Tognazzi in gran forma (vedi la scena in cui ordina per telefono due caffè al bar, di cui uno decaffeinato). 

Il risultato finale può forse apparire un po’ scomposto, ma lascia comunque il segno, vuoi per la beffarda ironia di cui il film è soffuso, vuoi per  la bravura degli interpreti, un misurato Manfredi, la graziosa Tiffin, ingenuità e malizia, il già citato Tognazzi, con la capacità di dare risalto anche a brevi ma efficaci caratterizzazioni, offerte, per esempio, da attori del calibro di Gigi Ballista: un classico esempio di film “medio” (i capolavori di Risi sono altri), colorato, vivace, folcloristico se vogliamo, con qualche evidente lungaggine prima di arrivare ad un prevedibile finale, che riesce però, ancora oggi, a far divertire e riflettere.

 

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Gatsu 7/10

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