Gravity regia di Alfonso Cuarón
FantascienzaDurante una missione spaziale gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalsky si trovano dispersi nello spazio, dopo che una pioggia di detriti ha colpito e distrutto il loro team. Lontani dalla sicurezza della navicella dovranno intraprendere una durissima prova per salvarsi e tornare a casa.
Gravity è un film di buio e stelle. Lo spazio trascende il suo status di consueta dimensione per diventare una costellazione di simbologie: è una culla, è una sala cinematografica, è un grembo materno, uno spazio della mente? Questo meta-luogo sfaldabile e ricomponibile è qualunque cosa e allo stesso tempo non è niente.E poi c’è quel vuoto tra gli astri, come la solitudine di un pomeriggio di pioggia. Fa freddo, la radio si è rotta, si prova paura perché è tutto immobile ma provvisorio.
Cuaròn gioca con la luce e i movimenti di macchina prima in distaccato piano sequenza poi in soggettiva delineando un universo meraviglioso e terribile dove pone l’Uomo e la Donna. Ryan Stone-Sandra Bullock nasce, cresce, soffre, soffre ancora di più, muore e rinasce ancora in quel limbo nero, affiancata da una carta jolly che è Matt Kowalsky-George Clooney, enfant terrible dagli occhi che brillano. Sono due puntini bianchi scampati alla pioggia di detriti ma ora persi nel nulla, lontani dalla sicurezza della stazione spaziale, chimicamente amalgamati tra il panico di lei e lo humor di lui. Il 3D accompagna la storia in modo composto e perfettamente funzionale: una lacrima di Ryan diventa una piccola bolla che scavalca lo schermo fondendo tecnologia digitale con meccanica analogica del cuore. Gli innegabili virtuosismi tecnici e sonori non sono fini a sé stessi, perché l’impalcatura concettuale è solidissima. I temi di Salvezza e Speranza de I figli degli uomini si ritrovano più intimi, nascosti tra le stelle, scavati nello sguardo febbrile di una donna che deve superare un trauma del passato per tornare a casa (una piccola pecca, la profonda “americanità” del problema antico da risolvere). Lo “spazio” non è mai stato così “terra”: qui non c’è Hal 9000, si combatte contro sé stessi: la paura di tornare, la paura di vivere. Terra e cielo non sono altro che vita e morte, ma la morte non è mai la soluzione se la vita insiste e si impunta intimando tutta la sua urgenza: torna, vai, mettiti in moto, fai qualcosa.
La sceneggiatura classica segue il mutamento interiore di Ryan, l’abbattimento dell’ostacolo interno che è l’unico modo (da manuale) per superare gli ostacoli esterni di un ambiente ostile e pericoloso. Eppure la prima parte ha qualcosa di più di un compito ben svolto: è visiva e al contempo narrativa, è diversa da tutti i film “spaziali” caratterizzati da molta, moltissima azione, perché lo sfondo non si sostituisce ma si incorpora al dramma della protagonista. Purtroppo non si può dire lo stesso della seconda parte, che cade un po’ alla deriva (come i due astronauti) verso una spettacolarizzazione di movimenti tipicamente hollywoodiani ed effetti speciali in crescendo, fino a un finale non inaspettato ma coerente.
L’eccesso di action/effetti speciali dell’ultima mezzora si riscatta con un intermezzo divertente e poetico, affidato a George Clooney, in modo da consegnare allo spettatore un film non solo complessivamente riuscito, ma anche avvincente e godibile.
Il buio viene dopo, ma anche prima della luce.
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