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6/10

Il Capitale Umano regia di Paolo Virzì

Commedia Italiana
recensione di Alice Grisa

Nell'immaginario paese brianzolo di Ornate, nel cuore della notte un ciclista viene investito da un SUV. Le indagini portano a ritroso alle vicende accadute nell'arco dei sei mesi precedenti a tre persone: Dino Ossola, immobiliarista in rosso; Carla Bernaschi, moglie annoiata di un ricco imprenditore; Serena Ossola, figlia adolescente di Dino.

 Stabilire se è il territorio a fare la persona o la persona a fare il territorio sarebbe come chiedere se è nato prima l’uovo o la gallina, mentre è più facile restituire la fotografia d’insieme di una Brianza che certamente non è gli Hampton e non è il Texas. Si tratta più che altro di un territorio ibridato tra bellezza e desolazione, tripartito e organizzato tra Monza, Como e Lecco, sospeso tra natura, ville d’epoca e basse costruzioni, stratificato tra case di periferia, villette a schiera (centinaia, migliaia di villette) e qualche imponente residenza.

Virzì sposta il romanzo di Stephen Amidon dal suo sfondo originario, il Connecticut, smontandolo e rimontandolo come un castello della Playmobil, ma il cielo sopra esso è sempre, come dicono in Brianza, “scuro”, privato (anche nella trasposizione) dello humor e del black cinismo che brandizzano il regista di Livorno.

Il Capitale Umano è un film riuscito a metà, con una padronanza del linguaggio cinematografico consolidata ma che lascia alcuni punti oscuri; se il focus era il territorio, l’argomento è stato esaurito in modo troppo frettoloso. La Brianza è consumi e motori, ma a un livello di analisi superficiale, è non-luoghi ma anche paesaggi storici e poi ci sono alcune anomalie, come sottolinea l’imprenditore di Lissone Giovanni Anzani sul giornale locale: “Il core business della Brianza non è la finanza ma la fabbrica, la produzione. Il brianzolo diffida del mondo della finanza, se potesse i soldi li metterebbe sotto un materasso”, al contrario dell’imprenditore interpretato da un calibrato e centrato Fabrizio Gifuni. Se invece la prospettiva era quella umana e “rappresentativa di ovunque”, il risultato ricorda Frankie HG e le accuse di fine anni ‘90 (“...e come le supposte abitano in blisters full-optiona, con cani oltre i 120 decibels e nani manco fosse Disneyland, vivon col timore di poter sembrare poveri, quel che hanno ostentano e tutto il resto invidiano, poi lo comprano, in costante escalation col vicino costruiscono: parton dal pratino e vanno fino in cielo, han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo e sono quelli che di sabato lavano automobili che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e i pargoli”) mentre i personaggi sono imprigionati nella struttura stessa che divide la vicenda in tre capitoli (tre diversi punti di vista) e in generale poco sfaccettati.

C’è quindi un Fabrizio Bentivoglio , piccolo borghese “going to” con il conto in rosso e l’Audi in leasing, c’è una “Veronica Lario naif”, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, sorella di Carla Bruni, ingenuamente destabilizzante in alcuni momenti (“Cos’è la polizia?”)  e una specie di Giulietta in moto (Matilde Gioli), alla ricerca del vero amore. Ogni personaggio e ogni capitolo corrispondono al cambio di genere: si parte dalla commedia nera (Dino) per passare a toni sfumati di transizione (Carla) fino ad arrivare alla tragedia (Serena) come specifica dei giovanissimi, e questo è un peccato perché la vicenda costruita sull’arrivista Dino (un vago eco delle storie di Dino Risi e della feroce commedia all’italiana) era la più congeniale alla storia di “capitale umano” e sicuramente la prospettiva più aderente a Virzì, mentre quella di Carla (che di nuovo etichetta la cultura a sinistra o come panacea della noia) è debole e quella di Serena sfocia in un melodramma dark.

Il vaso di Pandora non scoperchia la speranza (la maggior parte dei personaggi ha un’anima nera e i pochi idealisti soccombono per mancanza di forza) e il Romeo della situazione, presentato come puro e delicato, non è immune al fascino di un SUV da guidare a duecento all’ora sui tornanti nel cuore della notte. La gioventù bruciata è un ricordo incantato rispetto a questa, viziata e annientata dai consumi.

A prescindere dalle polemiche leghiste e non, il film ha basi buone ma non arriva al cuore. Se “il capitale umano” è subordinato alla struttura economica, quello semantico del racconto dovrebbe mirare più in alto e, svincolandosi dalla semplice rappresentazione della realtà con o senza messaggio morale, fornire le chiavi per una più alta comprensione.

V Voti

Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 3 voti.
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alexmn 7/10

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