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8/10

Gli Sfiorati regia di Matteo Rovere

Commedia
recensione di Alice Grisa

 

Mète è un giovane grafologo che deve condividere per qualche giorno un appartamento con la sorellastra diciottenne Belinda, in attesa del matrimonio del padre. Turbato dalla sensuale ragazza, Mète, piuttosto che affrontare il problema, preferisce "sfiorarlo" ed evitare qualunque incontro con lei.

 

Meraviglioso lo studio del grafologo Bruno (Claudio Santamaria), collega di Mète (Andrea Bosca), sulla categoria degli sfiorati: gli sfiorati non sono come i narcolettici, gli psicotici, gli alcolizzati, come chi può affidarsi a una più o meno determinata etichetta. Sono i vacillanti, gli oscillanti tra sonno e veglia, quelli che in una tavolozza non sono né il blu né il rosso strillante, ma una vaga cromatura crema (che non è giallo, non è bianco, non è rosa e al contempo è tutte queste cose insieme). Matteo Rovere dopo Un gioco da ragazze, che raccontava un iperbolico viaggio all’inferno della perdizione, abbandona il tono netto e si avvicina a un più riuscito chiaroscurale. Tratta dal romanzo omonimo di Veronesi (1990), la storia è trasposta ai giorni nostri con quella leggera scia che richiama modelli e sistemi propri della generazione x, cresciuta negli anni ’80. Smarriti, lontani dai valori assoluti e dai punti di riferimento dei loro antenati, i giovani protagonisti sono in una sorta di apnea febbrile che li porta a vagare attraverso una metropoli soffocata dai non-luoghi (“Facciamo l’aperitivo?”, “Vestito così in discoteca non ti fanno entrare”, “Fingo di abitare nel palazzo d’epoca che faccio vedere ai clienti dell’agenzia immobiliare”). La deriva di tutto questo porta Mète a non riuscire a guardare i propri problemi negli occhi (dopotutto i Coen l’avevano anticipato, “non è un paese per vecchi”), ma solo a sfiorarli. I personaggi di contorno (il controllato Bruno e lo sfrenato opportunista Damiano, interpretato da Michele Riondino) ruotano intorno a un disegno mentale del protagonista a struttura centrifuga, ma finiscono coinvolti in un modo o nell’altro nella sua ossessione, mentre la professione di Mète, “troppo classica” e destinata a una ovvia estinzione, implode a contatto con l’attrazione incontrollabile per la sorellastra. Belinda (Miriam Giovanelli), italospagnola, bionda, un po’ consapevole Lolita, un po’ innocente bambola semisvestita, passa dal pavimento in slip e stivali (mentre la lavatrice perde acqua) al divano in slip e parigine di fronte a un documentario su Discovery Channel. Cucina una torta, dorme in perizoma, ascolta la musica con grandi cuffie colorate, provocando e provando allo sfinimento con la sua (finta?)ingenuità un fratello scisso tra desiderio e convenzioni borghesi. Belinda si fonde con l’appartamento, non esce mai di casa se non nella scena iniziale che si ricongiunge ad anello con quella finale, però non si può dire che “sfiori” la storia come fa Mète, perennemente in bilico su un filo fragilissimo, impegnato in una corsa che vorrebbe evitare l’ostacolo ma riesce solo a rimandarlo in un crescendo di ansia e agitazione. Fino a una soluzione finale che suona come un proverbio di Oscar Wilde, una conclusione adattata a una patina di grottesco incarnato in un acquazzone improvviso su una macchina d’epoca che sfreccia con la musica a tutto volume. Non rimane niente, se non l’élite naturale degli sfiorati, perfetti prototipi per incarnare la frantumazione moderna delle certezze.

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