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8/10

Blancanieves regia di Pablo Berger

Drammatico
recensione di Alice Grisa

Andalusia, anni '10 del secolo scorso. L'acclamato torero Antonio Villalta ha un incidente nell'arena; per lo stress la moglie partorisce prematuramente e muore subito dopo aver dato alla luce Carmen. Il torero, sopravvissuto ma con forti handicap, si fa circuire da un'avvenente infermiera, Encarna, che lo sposa per impossessarsi del suo cospicuo patrimonio. Nel frattempo la bambina cresce con la nonna che le insegna l'arte del flamenco ma, alla morte di quest'ultima, è costretta ad andare a vivere con il padre e la perfida matrigna. Vessata insieme al padre da continue crudeltà, Carmen riuscirà anni dopo a sfuggire a Encarna e, dopo aver conosciuto una compagnia di nani-toreri, diventerà lei stessa un torero sotto lo pseudonimo di Blancanieves.

 

Blancanieves è una scatola blu di biscotti danesi: la latta vintage e malinconica della scatola e i 500 grammi di dolci delizie ricoperte di zucchero spingono a consumarla tutta così, in pochi istanti, con la fretta di arrivare alla fine. Una volta esaurita però,  davanti al recipiente vuoto, si prova un confuso senso di nausea.

In Blancanieves il tempo lontano diventa canzone triste, mentre i punti fermi del mito sono irriconoscibili o già caduti sotto il pragmatismo del merchandising.

Squilla un bianco e nero da fotografia radical chic, mentre le pose e le luci restituiscono una formula di packaging superficialmente retrò ma, in realtà, profondamente attuale. L’iconoclastia generale richiama più la sperimentazione che l’età dell’oro rimpianta ed evocata da The Artist; i due film, spesso dalla accostati dalla critica, possono partire dalla stessa idea di cinema muto ma il risultato di Blancanieves va nella direzione opposta e alla classicità della riproposizione di Hazanavicius contrappone una poco inquadrabile sregolatezza.

Biancaneve è una tipologia di principessa che di solito genera perplessità: bravissima nei lavori domestici e a ubbidire agli ordini, nella schiera delle addormentate da svegliare ma completamente passiva (c’è anche da considerare che nel 1937, anno in cui il cartone animato di Walt Disney uscì al cinema, era fondamentale concentrarsi sulla donna come angelo del focolare). Tuttavia il mito e i suoi feticci (la mela, lo specchio, i nani) si sono impressi nell’immaginario popolare e non e, dopo una serie di riproposizioni di trascurabile interesse (ultime quelle di Tarsem Singh e di Rupert Sanders), arriva questo esperimento che trasfigurando il racconto ragiona sul cinema, sul voyeurismo che fa a pezzi la fiaba e sul virtuosismo del mezzo tecnico.

L’operazione dello spagnolo Pablo Berger è esteticamente una meraviglia tra movimenti di macchina inusuali, campi invertiti, inaspettati piani sequenza, soggettive estreme (vediamo a un certo punto con gli occhi di un gallo), angolazioni impreviste; scontornata dalla vaghezza dell’ambientazione originaria e incantata, Biancaneve è collocata in modo abbastanza verosimile nell’Andalusia dei primi decenni del ‘900, tra corride, balli di flamenco e corrales.

Pablo Berger lavora su un’espressionismo rivisitato: da qualche traccia di Murnau, Lang, Dreyer focalizzata sulla distorsione della realtà e su primi piani insistenti e sofferti, si arriva a un linguaggio più ibrido che citazionista: è il cinema che non può più sottrarsi dalle contaminazioni presenti e passate e infierisce sulla storia stessa, mutandola e deformandola fino a snaturarla. Arriva all’estremo l’esasperazione degli sguardi, dei momenti di dolore, della crudeltà della matrigna (una performance magnifica e terrorizzante di Maribel Verdú): tutto converge nel parossismo e la colonna sonora di Alfonso de Vilallonga,  un flamenco triste, anticipa la chiusura (melo)drammatica.

Biancaneve neanche qui riesce a emanciparsi dal suo “essere oggetto” (prima viene adottata dalla nonna, poi vessata dalla nuova moglie del torero Antonio Villalta, coccolata dal padre, accolta dai nani, ingannata dal procuratore sportivo e infine esposta come fenomeno da baraccone) ma per la prima volta esprime tutto il dolore dell’innocenza sottomessa al destino ineluttabile. La prima parte è più riuscita della seconda: scintillante e potente, piacevolmente barocca, con il bianco e nero che riesce a esprimere tutti i colori della Spagna mentre i personaggi, incrociandosi con il chiaroscuro, sono sempre più appassiona(n)ti. Nella seconda parte invece, con Biancaneve adulta e meno energica di com’era da bambina, prevale il grottesco (presente anche nella prima ma meno enfatizzato) non sempre opportuno, non sempre logico, non sempre funzionale.

Quello che si prova alla fine è il dolore di fronte alla fine delle favole: la nuova Biancaneve è attratta da un nano, non c’è nessun bacio che possa salvarla dal sonno avvelenato ma ci sono altri mille baci che possono costituire uno spettacolo per monetizzare il tutto. Questo è il vero rimpianto, una sorta di non è un paese per vecchi andaluso, in cui ciò che prima era sacro diventa baracconata e le uniche lacrime dei rimpianti sono destinate alla notte, quando si è soli, quando si può far emergere uno spiraglio della propria anima.

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