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8/10

The Rover regia di David Michod

Thriller
recensione di Davide Di Legge

Australia, 10 anni dopo il "collasso". Il vagabondo Eric inizia un viaggio per recuperare l'auto che gli è stata rubata. Il giovane Rey, in qualche modo legato alla sua auto, sarà il compagno di viaggio in un mondo ormai privo di leggi.

L'australiano David Michod aveva dimostrato tutto il suo talento visivo e registico già nel debutto Animal Kingdom, film incentrato sull'implosione di una famiglia di criminali. The Rover è il secondo lungometraggio del cineasta di Sydney, che a quattro anni di distanza, da vita ad un'altra opera personale e lontana dai classici schemi del cinema odierno.

Una imprecisata catastrofe ha spazzato via gran parte dell'umanità e in questo scenario a metà tra la post-apocalisse e il "new western", Eric (Guy Pearce) procede alla ricerca dell'auto che gli è stata rubata. Quell'auto, più precisamente ciò che custodisce, è unico motivo di vita e azione, non soltanto per il personaggio di Eric, ma anche per la struttura stessa della pellicola. Rey (Robert Pattinson) si affianca a Eric in questa ricerca, lui che è stato abbandonato a morire da suo fratello (Scott McNairy). Michod compatta in modo estremo la storia e dirige quello che a tutti gli effetti può essere definito un road movie verso la fine del mondo.

Non c'è più speranza nel panorama di The Rover: le città non esistono, la crudeltà e la morte sono la nuova legge generale e l'unica via per la sopravvivenza è un rinnovato darwinismo sociale oltre ogni limite. Non c'è rapporto umano o sentimenti che tengano. Lo stesso viaggio che i due protagonisti compiono insieme non è un reciproco comprendersi e avvicinarsi. In questo, The Rover richiama alla mente il tema del doppio e dell'inevitabilità della morte che Gus Van Sant aveva narrato in maniera altrettanto minimalista nello straordinario Gerry. Nei rarissimi dialoghi, tutti resi con l'asciuttezza del campo/controcampo, Michod (anche sceneggiatore), delinea la totale distruzione di qualsiasi legge morale ed etica, prima rimarcando la mancanza dell'appiglio spirituale ("cosa ha fatto Dio per te?"), poi mettendo a nudo un sistema di giustizia che lascia gli uomini liberi di agire, come racconta Eric alla "polizia" in una delle sequenze più devastanti dell'intero film. Il disfacimento totale dell'uomo è proprio nella quotidianità della morte, quando uccidere non fa più differenza e diventa la regola. Persa la speranza si rimane soli, chiusi in una gabbia, come quei cani costretti alla prigionia per non diventare cibo...

In questo mondo di derelitti prossimi alla fine, il regista di Animal Kingdom lavora di sottrazione e lo fa su tutti i livelli. The Rover è plasmato per un ritmo che ricorda i classici europei, diametralmete all'opposto rispetto ai frenetici ritmi cinematografici attuali. Ad infierire sulla scorrevolezza è proprio questo lavoro multiplo di sottrazione che riguarda anche la sceneggiatura, ridotta all'osso, e un clima asettico e crepuscolare capace di raccontare molto più delle parole. Michod dilata i tempi e gli spazi. In questa ricerca della stasi contemplativa e visionaria si fa aiutare da un sonoro straniante firmato Antony Partos. La sua "conformazione" personalissima, che esalta il racconto e la messa in scena, lo rende un film ostico, il classico titolo "non per tutti", perchè ad affiancare i silenzi ci sono improvvise esplosioni di violenza.

Se il film riesce ad essere potente e intimo allo stesso tempo lo deve anche alle interpretazioni attoriali. Robert Pattinson è perfetto nel suo personaggio ritardato e ingenuo, ancora legato ad un mondo di amicizia e legami che è in realtà scomparso. Altrettanto importante la prova di Guy Pearce, ormai attore feticcio di alcuni registi australiani, che torna di nuovo a recitare con gli occhi e pochissime battute, un po' come aveva fatto in un film per certi versi analogo come La proposta di John Hillcoat.

The Rover è una pellicola di difficile assimilazione. Nella sua ostentazione di lirismo visivo e rifiuto del ritmo, ma anche e soprattutto nel suo ragionamento sulla perdita dei valori umani, il secondo lungometraggio dell'australiano sembra essere la prosecuzione, il "figlio apocalittico" di Animal Kingdom. Un film coerente con un preciso percorso artistico che da un lato conferma l'estro di David Michod e dall'altro sottolinea ancora una volta l'ottimo momento di salute che sta attraversando il cinema australiano, con l'emergere di nomi come John Hillcoat, Andrew Dominik e Jennifer Kent. Di certo, una delle realtà più interessanti dell'ultimo decennio cinematografico.

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