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R Recensione

8/10

Maps to the Stars regia di David Cronenberg

Drammatico
recensione di Francesco Ruzzier & Alessandra P.

Benjamin è un bambino prodigio, star di una serie di film comici per tutta la famiglia che si atteggia ad adulto e possiede tutte le nevrosi e l'arroganza del navigato performer. La sua famiglia è formata da un padre psicologo dai metodi poco ortodossi e da una madre anch'essa attrice ma con poca fortuna, figlia a sua volta di una nota stella del cinema che forse dovrà interpretare nel film biografico a lei dedicato. Nelle loro vite arriva una ragazza con il volto sfregiato da un'ustione, determinata a lavorare come assistente di Carrie Fisher e innamorata di un'autista che sogna di fare l'attore. Assieme alla ragazza però arrivano anche strane visioni.

Francesco Ruzzier (voto 9):

Con Maps to the Stars, presentato in concorso alla 67° edizione del Festival di Cannes, David Cronenberg continua ad adottare, come in gran parte delle sue ultime opere, un approccio psicanalitico, utilizzato questa volta per mappare le ossessioni del firmamento hollywoodiano. Robert Pattinson, promosso ad autista dopo Cosmopolis, viene ingaggiato da Mia Wasikowska per un tour tra le ville delle star, mentre un'attrice sulla via del declino (Julianne Moore) racconta i propri dilemmi al suo terapista (John Cusack) e un baby-divo (Evan Bird) discute con la madre-agente (Olivia Williams) su come ottenere il massimo dei ricavi dal prossimo contratto. Il film parte utilizzando un tono leggero, quasi da commedia, riuscendo così a presentare l'aspetto esteriore dei personaggi e le strategie opportuniste con cui essi si rapportano tra loro in modo leggero ed efficace. Poco dopo il regista canadese vira su atmosfere inquietanti, quasi lynchiane, mettendo in scena in maniera diretta il manifestarsi delle ossessioni, degli incubi e delle fobie dei protagonisti. Ben presto si scopre infatti che Cronenberg, per raccontare la sua inquietante visione di Hollywood, volendo mostrare ciò che si trova al di sotto della superficie, ha scelto la via del ghost movie, perchè, secondo il regista, sono diverse tipologie di fantasmi a perseguitare i personaggi che ha messo in scena. Tutti, in Maps to the Stars, sono profondamente ancorati ad un passato che ritorna ossessivamente e ciclicamente e, soprattutto, tutti questi fantasmi sono strettamente legati a problemi familiari: ci sono figli che ritornano dal passato, genitori mancanti, figli rifiutati e dipendenza dai figli, molestie sessuali, confronti generazionali e perfino rapporti incestuosi. Nel film i problemi riguardano quasi sempre l'assenza di una posizione salda e rassicurante; nessuno possiede delle certezze su cui costruire la propria quotidianità, tutti sono sempre in bilico, temono il confronto e hanno costantemente il terrore di essere rimpiazzati. Tutti vivono in uno stato di perpetua follia dal quale sembra non esserci nessuna via d'uscita.

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Alessandra P. (voto 7):

"Su ogni carne consentita

Sulla fronte dei miei amici

Su ogni mano che si tende

Io scrivo il tuo nome"

“L’inferno è solo un mondo senza narcotici” , recita come un passo biblico che si perpetua costante nel dispiegamento disturbante della vita dei suoi personaggi, dipanati entro passi e citazioni ancestrali che si ripetono registro su registro, entro, sulla vita dei suoi protagonisti, allineati in forma parattatica, da un destino comune, entro lo scenario consumato per paure, allucinazioni, come neoplasie che incrinano il fragile confine tra realtà e rappresentazione, mutandone l’aspetto, incontrollato, in una costruzione gerarchica delle colpe, segrete. Il crepuscolo degli Idoli nella mappatura delle stelle, inizia, nell’ultima opera del regista D. Cronenberg, a Hollywood Blvd, dove i nomi lastricati delle star, sono passaggi di eternità ambite, raccolte sotto il passo delle nuove ambizioni, degenerazioni, dismessi ruoli, vite deturpate. Los Angeles, epicentro iniziale della narrazione, si dirama non solo geograficamente entro questa mappa, dove la città del cinema, incedibile alla sua forma esistenziale, costruisce un ambiente perversamente circolare. Una famiglia della dinastia di Hollywood, la famiglia Weiss, e le figure che si allineano alla sua storia, si consumano dietro il segreto di un incesto inconsapevole, elemento costitutivo, portante della sceneggiatura di quest’opera, dove partiture e copioni rappresentati , recitano costantemente questa declinazione privata in tutte le sue immagini; degenerazioni amorali, nella quali, il regista, ne rivela gradualmente la componente mostruosa, nella promiscuità delle loro azioni, nello scadere di un linguaggio senza età, adolescenziali nella corruzione di questa struttura,  orizzonti linguistici come veicoli dell’esperienza, per ammenda mai ascoltate, riversate come rifiuto entro lo spazio della negazione, dove la lacerazione della morte ricostruisce un rapporto con i vivi, lasciandoli quasi in dissolvenza. Il dramma trova la sua evoluzione, come nota predilezione registica, nel corpo, debole al controllo razionale, è metafora , epidemia, dove rendere sovrani gli impulsi, al suo rapporto quasi inesistente come individuo, persona, dove la lacerazione del limite pelle, nella sua protagonista, Agatha (Mia Wasikowska), schizofrenica, bipolare, e Havana (Julianne Moore), nel corso dello scadere del suo tempo passato, denunciano la violazione della saldezza carnale, frammentando l’interno,  in un processo di animalizzazione delle vicende, dove distillare gli elementi in analisi; una comunicazione dove l’urto dell’esperienza personale prende sopravvento sulla psiche, rende impossibile intervenire nell’ordine che li circonda, dove abdicare, districarsi dal destino e suoi sconfinamenti possibili. Qui, non avviene un risarcimento formale del malessere che si insinua ferocemente nei suoi personaggi, ma ne determina la loro irriducibilità, in un sistema di relazioni, per un contagio inarrestabile, dove la morte torna come risposta nello loro ansiogene  sospensioni. L’opera di C. non desidera, come caratteristica peculiare del sua arte, scadere verso un’idea di cinema che assolva come sostituto la chiarezza di una società ferocemente imperfetta. Il male, il malessere, le visioni disturbanti e degeneranti dello scandalo della loro stessa natura, sono colte in esame, in una trionfale dissezione, per una provocatoria angoscia, per una risposta di disgustato rifiuto, ferendo il limite fluttuante dell’apparire, di ciò che è “sopportabile” osservare, in una richiamata alienazione dal reale, nel disagio delle sue figure, nella loro totale incomprensibilità delle regole del vivere, nel contesto in cui sono assorbite, in una consacrata, e disperante, possibilità di sopravvivenza adattata alla loro stessa natura. Il regista costruisce un rapporto con l’osservatore,  erompe nel suo campo immaginifico, interpretativo, trascinandolo violentemente nell’impossibilità di fuga dal dualismo vita –morte, unicità-distruzione, destino e condanna, consegnando allo spettatore la decodificazione dei suoi significati, stratificati, delle sue simbologie, come intervento creativo. La sessualità, la violenza, la visionarietà, i lati più oscuri della psicologia , la morte,  sono riflessioni ricorrenti in C., una tendente demolizione costante delle fondamenta della nostra società, una corrosiva critica sociale mediante la distruzione del concetto di realtà nella vita dei suoi stessi personaggi, tendenti a perdere i limiti sensoriali della percezione sino a tramutarsi in un misterioso, quanto profondo, collegamento con il loro stesso inconscio.

I personaggi si alternano tra lacerante disumanità, e pseudo umanità, spinti da una compulsiva ricerca volta ad un riscatto, ad una denutrizione delle loro paure animate, alla decostruzione dei loro incubi ricorrenti, al disfacimento del loro presente volto in maniera decisa verso i loro orizzonti personali, privi di vita. La morte, come riproposizione fisica della paura, é posta in maniera speculare entro i profili dei suoi personaggi, diramando la carne delle sue figure nello spettro del loro vuoto, entro la disintegrazione della psiche, afflitta dalla maledizione di un equilibrio. Il regista riduce la vita alla morte, pone un arresto nel passato, dove Agatha, in particolar modo, rappresenta questa involuzione statica, una feroce pulsione di morte.

In Maps to the Stars, Cronenberg non offre più un graduale passaggio cromatico verso le  sinestesie coloristiche, ineffabilmente spirituali di Rothko, e la sua ricerca, ma una planimetria costellata, stigmatizzata sui corpi violati delle sue figure, per una metamorfosi fisica che si estende nella ritualità della sua fine, nella consacrazione dei suoi anelli, un'incestuosa predeterminazione familiare alienata nel simbolo junghiano della fede nuziale, “Perché l’amore è più forte della morte” , in un Cantico dove le sue creature sono spezzate, penetrate. Cronenberg anima in Hagata, il personaggio di riscatto verso una libertà insperata, recitata come versi di un’apocalisse interiore, nei passaggi incidenti della poesia di Paul Eluard, dischiusi verso la sua menomazione corporale,  consegna a sé il problema di un'identità che non può più essere concepita come conchiusa,  la dichiarazione di un destino recitato dai Padri, discendere sui figli, si comprime, tagliente, nell’esistenza della sua stessa discendenza, consacrandosi , in una ferale sorte, nella sua protagonista, come sigillo conclusivo, nella dissoluzione dei suoi cieli interiori.

Se nelle opere precedenti di Cronerberg, la luce si diradava in una dilatazione visiva e percettiva tipica dei sogni, qui lo spazio, in cui sono collocate le sue figure, confuse e in bilico tra materialistici desideri carrieristici, rivendicazioni del passato, scardinate empatie assassinate dalla morte per desideri ossessivi, entro  materiche dimensioni, la luce si presenta fisica e tagliente. Peter Suschitzky, direttore della fotografia, osserva la luce nella sua pura naturalezza, osservando la corporeità e la fisicità materica di ogni fascio di luce, che scolpisce incubi, nello stridente richiamo al giorno, scalfendo le forme di una deformazione, non solo fisica, priva di ogni edulcorazione coloristica, attraente, che restituisce, brutalmente, in uno sguardo prismatico dei loro volti, la suggestione imponente della loro disumanità, senza esclusioni. La luce è contaminante, svilendo la realtà ad una priva  trasparenza, ingabbiata, come l’esistenza dei suoi protagonisti, oltre uno strato per effetti luministici, svelando naturalmente l'essere umano, pressato dalla e nella sua condizione fisica, prossima come giudizio interiore, oscurata nel suo finale.

 “Su ogni mio infranto rifugio /Su ogni mio crollato faro

Sui muri della mia noia/Io scrivo il tuo nome

Sull'assenza che non desidera/Sulla nuda solitudine

Sui sentieri della morte /Io scrivo il tuo nome

E per la forza di una parola/Io ricomincio la mia vita

Sono nato per conoscerti /Per nominarti

Libertà."

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 6 voti.
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Agro 9/10

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