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7/10

Cosmopolis regia di David Cronenberg

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi, Federica Banfi, Alessandro Giovannini

Il miliardario ventottenne Eric Packer (Robert Pattinson) attraversa Manhattan in limousine per andarsi a tagliare i capelli, accorciando le distanze tra sé e la minaccia incombente di chi vorrebbe vederlo morto.

Fulvia Massimi (voto 7):

In concorso a settembre alla Mostra del Cinema di Venezia con A Dangerous MethodDavid Cronenberg si era presentato in veste meno fisica e più cerebrale, scegliendo di esplorare la violenza della psiche piuttosto che del corpo, nella cornice di una messa in scena ancor più classica che in passato. Nemmeno un anno più tardi, il regista canadese approda sulla Croisette del Festival di Cannes (conclusosi ieri in serata con la vittoria di Amour di Michael Haneke), portando in competizione l’attesissimo adattamento di Cosmospolis di Don DeLillo.

Libera rilettura dell’Ulisse joyceano in chiave post-Ground Zero, il tredicesimo romanzo di DeLillo offre materia fertile per una rinnovata incursione nei temi e stilemi cari al cineasta di Toronto che, a dispetto delle sue passate esperienze in termini di trasposizione letteraria (Crash di James Ballard, Il Pasto Nudo di William Burroughs, La  Zona Morta di Stephen King), realizza qui un adattamento a dir poco fedele, ricalcando in maniera pressoché pedissequa la struttura narrativa e i dialoghi del romanzo di partenza.

Da sempre attratto dalle potenzialità illimitate della tecnologia e dal fascino dell’anomalo, Cronenberg – fin dagli esordi anche sceneggiatore di tutti i suoi lavori – accetta la sfida di un film girato quasi interamente in un unico spazio chiuso (la limousine di Packer, prodotto di quell’Identico spesso indagato dal cinema cronenberghiano) e fondato essenzialmente su un continuo confronto dialettico tra il protagonista e i suoi “compagni di viaggio”.

Come in A Dangerous Method, dunque, dialogo e campo-controcampo si offrono quali marche discorsive determinanti per eviscerare i contenuti filosofici (e psicologici) sottesi alla pellicola. Ma laddove in A Dangerous Method la “cura delle parole” freudiana era messa in quadro in modo assolutamente rigoroso, in Cosmopolis la sovversione appena percepibile della grammatica di montaggio (ad opera dell’immancabile Ronald Sanders) rende ragione di un principio basilare nell’economia dell’opera ultima di Cronenberg, così come nel romanzo di DeLillo: l’anomalia,  ”l’importanza dell’asimmetria, delle cose leggermente sghembe. (…) L’imperfezione.”

Dalla prostata asimmetrica di Packer al suo taglio di capelli concluso a metà, passando attraverso l’andamento insolito dello yen nei mercati finanziari e il parossismo di follia libertaria (anti-capitalista, neo-marxista) che blocca le strade della città, tutto concorre a destabilizzare l’ordine pianificato: un avvertimento, o meglio, una serie di avvertimenti, che dovrebbe suggerire (e suggerisce) a Packer il percorso da seguire.

Un percorso, il suo, che ha inizio nel silenzio ovattato e assordante di una limousine iper-tecnologica (nella quale la colonna sonora cupa e minimale del fedelissimo Howard Shore riesce a malapena a penetrare), e si snoda attraverso una città che è esattamente il contrario di come il titolo vorrebbe farla apparire: Cosmopolis, la città dell’ordine, in realtà dominata dal caos dell’anarchia. Anarchia che Packer sembra voler progressivamente abbracciare, degradandosi e spogliandosi (letteralmente) dei beni materiali per scendere nel ventre più squallido e viscerale di New York (non a caso, Hell‘s Kitchen) e confrontarsi con la sua nemesi (Paul Giamatti, in una delle sue straordinarie performance).

È allora nel quadro di questa progressiva rinuncia allo “spirito del capitalismo”, per abbracciare (forse) la completezza del “semplice vorticoso bisogno di esistere”, che si collocano e si spiegano gli esercizi calistenici cui Packer sottopone continuamente i suoi interlocutori. Il confronto con analisti di rischio, nerd informatici, neo-spose (la splendida Sarah Gadon), amanti soddisfatte (piccola parte per Juliette Binoche) e guardie del corpo meno soddisfatte, contiene già in nuce i prodromi del faccia a faccia conclusivo con Benno Levin/Richard Sheets e si configura come una progressiva e inconscia rinuncia all’ossessione di possesso e alla smania di controllo, in una riduzione dell’individuo ai suoi predicati basilari (mangiare, pisciare, scopare) e, forse, al suo totale annientamento.

“Nessuno morirà. Non è questo il credo della nuova cultura? Verranno tutti assorbiti dentro flussi di informazioni”, sostiene  la consulente di teoria Vija Kinski e non è casuale che a interpretarla sia quella stessa Samantha Morton che per Steven Spielberg si era fatta precog. Il clima appena futuribile descritto da DeLillo viene accolto in pieno da Cronenberg, che ne estrae il carattere pre-apocalittico focalizzandosi sulle sue derive prolettiche e affida a Packer il compito di incarnare, con le sue capacità di (pre)visione, il prototipo messianico del nuovissimo millennio. Lasciare la “benedizione della carne” per farsi dato su uno schermo, entità fagocitata dalla tecnologia, “esperienza umana dilatata all’infinito come strumento per la crescita e la politica d’investimento aziendale” nel collasso totale della civiltà: questo sembra essere il destino preconizzato da Packer nella sua testarda e lentissima corsa attraverso la città, solo per adempiere ad un futile impulso che potrebbe essergli fatale. La baudrillardiana fine dell’Uomo ad opera della Tecnica nell’epoca del cybercapitale.

Death no matter where you go come and getcha” canta il rapper defunto Brutha Fez (in un pezzo scritto e arrangiato da DeLillo in collaborazione con l’artista somalo-canadese K’naan) e sebbene “le sue ultime parole non riescano a trovare alcuna bellezza nella sua morte prematura”, hanno senza dubbio un valore profetico che potrebbe avverarsi oppure no: il finale aperto scelto da Cronenberg (una delle pochissime concessioni rispetto al romanzo) è decisamente più ambiguo dell’immagine-cristallo approntata dallo scrittore italo-americano.

Il presentimento di una minaccia sempre più concreta incombe sulle ultime (?) ventiquattr’ore di Packer, pilotandone le azioni e conducendolo infine all’incontro con un destino tutt’altro che casuale: una fase dello specchio lacaniana, un confronto diretto con il Sè e con l’Altro da Sè (diverso ma pur sempre uguale), “la sensazione di qualcosa di non protetto, di interno-esterno”, nel tentativo di ritrovare nella sofferenza autoinflitta un barlume dell’umanità perduta. Ed è qui che l’inespressività di Robert Pattinson, solitamente motivo d’intralcio, si rivela essenziale a rendere la freddezza e l’indifferenza di un personaggio incapace di calore, animato soltanto dalla bellezza dell’arte di Rothko (rievocata nella grafica dei titoli di coda come Pollock in quelli di testa), dalla morte “scandalosa” di un amico e dal contatto finale con i brandelli di un’infanzia volontariamente dimenticata.

Eric Packer è allora il Charles Foster Kane della nuova, o meglio, della prossima generazione: il tycoon della finanza cresciuto troppo in fretta all’ombra di un padre assente. Il suo viaggio – limitato nel tempo e nello spazio se confrontato con quello di Orson Welles – è solo uno degli infiniti modi/mondi possibili per avvicinarsi a Rosebud, la giovinezza perduta (“Quanti anni hai?” è d’altronde una domanda ricorrente per Packer) e ritrovata infine sulla poltrona di un barbiere nell’angolo più remoto e dimenticato di New York.

Cineasta della mutazione per antonomasia, Cronenberg rinuncia alla natura trasformativa del trasporto dell’opera d’arte dalla letteratura al cinema, scegliendo la via della duplicazione piuttosto che quella della ri-creazione o ri-generazione, e affidando il tema della metamorfosi alla parabola emotivo-evolutiva del suo protagonista. Gli schermi video restituiscono immagini compresse dell’Esterno, penetrando senza osmosi nell’abitacolo di un’automobile che scivola su strade metafisiche (dietro i finestrini oscurati potrebbe esserci qualsiasi città), e la tendenza ad una regia televisiva, che privilegia piani stretti e totali poco cinematografici, contribuisce a determinare un senso di distaccato straniamento, una freddezza videomatica che reifica l’umano e lo annichilisce.

E se in A Dangerous Method era stata proprio la freddezza dell’opera a generare un vago e non meglio specificato senso di incompiutezza, in Cosmopolis è quella stessa vibrazione sinestetica a dar conto di una perfetta sinergia tra le pagine, brevi ma fitte, di DeLillo e lo sguardo, tecnologico ancor più che fisiologico, di Cronenberg. Non già un un capolavoro, ma senza dubbio un ritorno in grande stile.

Federica Banfi (voto 5):

«Più l'idea è visionaria, e più gente si lascia dietro». Che David Cronenberg abbia negli anni portato sul grande schermo film più che visionari è indubbio: con Videodrome, La mosca e Inseparabili il regista canadese si è fatto conoscere ed amare dal pubblico proprio per la sua capacità di condurre lo spettatore in una dimensione altra, abitata da uomini che hanno perso il loro statuto di essere umano, per unirsi chi all’animale e chi alla macchina, e in cui l’orrore impregna la quotidianità. Le sue pellicole hanno incantato, disturbato e fidelizzato un grande pubblico eterogeneo che per anni non è stato mai deluso (o quasi), riuscendo, nonostante la difficoltà dei temi proposti, a non “lasciare dietro nessuno”.

A prima vista Cosmopolis, romanzo di Don DeLillo alla base dell’ultima fatica del regista canadese, sembra perfettamente cronenberghiano: incontri tra reale e virtuale, tra presente e passato, rimandi marxisti, uomini che diventano macchine, denaro che diventa topo, spazi angusti e deliri sessuali, sono tutte tematiche che ben si possono sposare con la poetica portata avanti finora dal regista. Chi meglio di lui potrebbe trasporre sullo schermo l’allucinata e moderna odissea di Eric Packer, golden boy dell’alta finanza newyorkese, alle prese coll’irrazionale desiderio di recarsi dall’altra parte della città di New York, bloccata dell’arrivo del presidente degli Stati Uniti, soltanto per farsi sistemare il taglio? Chi meglio di lui sarebbe capace di rendere la claustrofobica ambientazione (una limousine ipertecnologica) e i surreali personaggi che si avvicendano al suo interno? O a mettere in scena la paranoia omicida del broker e i dialoghi quasi ioneschiani, incentrati su cybercapitali e sulla crisi economica mondiale?

Le aspettative tuttavia restano deluse: se Don DeLillo nel suo romanzo era riuscito ad annunciare l’imminente catastrofe economica mondiale, Cosmopolis di David Cronenberg annuncia solamente un cambiamento di rotta (negativo) del regista rispetto ai suoi più grandi capolavori.

Il regista canadese ben si destreggia all’interno della claustrofobica limousine, rendendone magistralmente il suo status di non-luogo augeiano, dove presente e futuro si confondono, diventando il luogo-simbolo della psiche disturbata di Packer. Anche la resa di un’ambientazione fantascientifica, ma allo stesso tempo estremamente reale e contemporanea è di grande impatto. L’abilità registica di Cronenberg risulta tuttavia sprecata: la più grande ed evidente pecca di Cosmopolis è infatti quella di essere un film estremamente verboso ed eccessivamente ancorato al romanzo originale. Che la scrittura di DeLillo ben si adatti a un’opera narrativa è indubbio, così come è palese la difficoltà di renderla cinematograficamente, ma questa trasposizione approssimativa delude lo spettatore, che ha l’impressione di trovarsi di fronte alla lettura ad alta voce di un romanzo e a un lavoro di riscrittura filmica incompleto. Anche la scelta di Robert Pattinson nel ruolo del protagonista non convince. Che sia pregiudizio (la sua apparizione all’interno del cast della tetralogia di successo Twilight lo ha professionalmente discreditato agli occhi di molti) o reale incapacità il risultato è il medesimo: l’attore non sembra a suo agio nei panni del milionario Packer e risulta poco credibile tanto nello snocciolare teorie di macroeconomia quanto nella sua smania di possedere la cappella Rothko. Perfetti invece, Juliette Binoche, pur nella sua breve apparizione, che ancora una volta rende manifesta la sua grande versatilità, e Paul Giamatti, che nel dialogo finale col protagonista, della durata di più di venti minuti, tocca uno dei vertici più alti della sua carriera attoriale.

Cosmopolis, insieme al precedente A Dangerous Method, segnano una svolta nella poetica di Cronenberg, che non abbandona la brutale violenza e la fisicità spinta della sua vecchia produzione, ma decide di relegarle momentaneamente in un angolo, ridimensionandole e sommergendole con una sovrabbondanza di parole che ne rendono difficile la fruizione. Che sia stato lui a “lasciarci dietro” o noi a non rimanere al passo la sostanza non cambia: che anche a noi serva, per comprendere il senso del film, come a Packer per comprendere il senso del capitalismo, una prostata asimmetrica?

Alessandro Giovannini (voto 8):

Tratto dal libro omonimo di Don DeLillo (dall'analisi del quale questa recensione prescinde totalmente), Cosmopolis segna il ritorno di Cronenberg in grande stile ai suoi temi prediletti: patologia, mutazione, anormalità. Questa volta l'ottica in cui tali argomenti sono declinati è quella dell'economia, con un risultato quantomai attuale (malgrado il libro sia del 2003). Robert Pattinson interpreta con granitica efficacia un personaggio sicuro di sè che scivola lentamente nel baratro dell'incertezza e della follia (ma forse non è mai stato molto normale).

La sua nemesi/mimesi, il tipico uomo qualunque esasperato dalla "banalità del male finanziario" (istrionicamente impersonato da Paul Giamatti) ne è un doppio speculare (a qualcuno viene in mente Inseparabili?) e opposto allo stesso tempo: nella lunga sequenza dialogica finale (un esercizio di stile notevole sia per recitazione che per regia) l'uno non capisce le tesi dell'altro, sebbene entrambi siano accomunati dal medesimo difetto fisico; due facce della stessa medaglia, ovvero una società in cui "il topo è diventato l'unità monetaria" (citazione che apre il film); si specula direttamente sugli esseri umani, l'economia di carta è molto maggiore dell'economia reale, la distribuzione della ricchezza è sempre più iniqua ed il mondo degli affari è un altro pianeta rispetto a quello della quotidianità proletaria (come dimostra le scena in cui, nel pieno di un'agitazione di dimostranti, Eric ed una sua collega parlano tranquillamente all'interno della limo isolata acusticamente mentre fuori succede di tutto e di più).

Certo il discorso politico è evidente, nonchè ben espresso dalla scritta di un'insegna luminosa che si scorge a un certo punto ("A phantom is haunting the world - The phantom of capitalism"), ma non è l'unico affrontato da Cronenberg in questo film, uno dei più densi che abbia fatto. Nei lunghi dialoghi che saturano la pellicola per tutta la sua durata si specula su una quantità di argomenti, i quali variano a seconda dell'interlocutore che Eric si trova davanti; il sesso è uno degli argomenti principali, che vede Eric come il principale sostenitore di un'attività sessuale frequente (un po' come fare della sana ginnastica), che però deve espletare con svariate donne in quanto non riesce ad avere rapporti con la moglie, con la quale finisce sempre e solo per mangiare e parlare della loro non-relazione. Anche il rapporto in apparenza amicale che Eric ha con la sua guardia del corpo è smentita dai fatti e si traduce in un puro interesse utilitaristico; così per tutti gli altri personaggi.

Buona parte del film si svolge nell'abitacolo della limo, e qui la regia di Cronenberg è magistrale nel riuscire a non annoiare ed a mantener sempre viva l'attenzione su dialoghi (molti) e avvenimenti (pochi) tramite un montaggio contrassegnato da frequenti cambi di inquadratura (che però non danno mai l'impressione di essere fini a se stessi). Si potrebbe anche interpretare l'uso degli spazi del film come metafora di spazi mentali: la limo diventerebbe quindi il "paesaggio mentale" (per usare un espressione Polanski-ana) di Eric, la stamberga del finale quello dell'assassino, i ristoranti e locali pubblici quelli della moglie (a rappresentare la non-inclusione della donna all'interno dell'universo di Eric, il quale infatti non riesce a capirla).

La fotografia claustrofobica e spesso ombrosa di Peter Suschitzky (abituale collaboratore del regista dal 1988) resta appiccicata ai personaggi ricorrendo principalmente al primo piano (magari leggermente grandangolato) ma mantenendo la profondità di campo: tutto è nitido eppure ben poco appare chiaro e logico in questo film, rappresentazione di un corto circuito personale/sociale che ci riguarda tutti, specie in questo delicato momento storico. Non si può concludere senza citare il pattern sonoro elettronico e minimalista di Howard Shore, che fa ben più di quanto sembri per la resa complessiva.

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 12 voti.

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Marco_Biasio (ha votato 9 questo film) alle 16:27 del primo giugno 2012 ha scritto:

"Io muoio alla giornata"

Giuro, il film mi ha lasciato completamente stordito, interdetto. Uscivo dalla visione di un A Dangerous Method che si avvicinava fin troppo ad un rigore formale alieno a Cronenberg, e mi sono ritrovato catapultato in una sala dove scorreva l'apocalisse sullo schermo e tutti ridevano. Talmente denso di spunti, contenuti, prospettive, possibili letture che persino ora, mentre sto scrivendo il commento, non ho la minima idea di dove cominciare e che cosa dire. E' un film difficile? Certamente. Imparagonabile con l'ultimo Cronenberg, più rilassato e narrativo. E' un film pesante? Dipende da che punto di vista lo si guarda. Naked Lunch era allora un film pesante? Dead Ringers era allora un film claustrofobico? Crash era allora un lavoro vacuo? David Cronenberg mi lascia sempre a bocca aperta: non un solo capitolo della sua elaborata filmografia devia da quello che è il tema, l'ossessione principale, la mutazione, l'ibridazione, la metamorfosi. Non uno. Persino The Dead Zone (il suo film meno riuscito, IMHO) riesce a prendere King come modello per poi vertere altrove e battere su quel tasto. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Sono passati quarantatré anni da Stereo e ancora, con un mondo completamente cambiato, Cronenberg rimane fedele a sé stesso. Hanno parlato di paragoni con eXistenZ: io onestamente vedo pochi punti in comune. Molto più con Crash, certo, ma se lì l'uomo era il componente subordinato in una relazione amorfa col metallo e la meccanica, qui l'individuo è cancellato dalla faccia della terra, sostituito dal dio finanziario in copula con le stesse menti artificiali e i supercomputer di cui si era predetto in Videodrome. L'uomo può ancora pretendere tutto, ma non sono più i soldi ad essere al suo servizio: è, semmai, il contrario. Così le azioni sono meccaniche, i funerali diventano eventi mediatici, i presidenti dei fondi monetari vengono pugnalati in diretta televisiva come Brian O'Blivion veniva strangolato nelle allucinazioni di Max Renn, i tatuaggi sul corpo sono cristologicamente rimpiazzati da fori di proiettile sulla mano, la polvere delle rivoluzioni di piazza dura il tempo del giro della Terra e, due ore dopo, è già dissolta nel nulla. L'errore di Federica si concentra, a mio modo di vedere, nel giudizio sulla figura di Pattinson. Sia a livello interpretativo, ma vabbè, questi sono gusti. Però la concezione stessa di uomo "fragile" che vive nel capitalismo senza conoscerlo ("prova a metterti una gomma in bocca senza masticarla") è secondo me fallace. Eric Packer conosce la finanza, la studia, la domina. Ma Eric Packer, allo stesso tempo, è il fantoccio di un "brave new world" in cui l'uomo non serve più: il finale di Shivers si concretizza, finalmente, trentasette anni dopo la sua realizzazione. Il virus ha infettato il mondo e si sta propagando ovunque. Possiamo scegliere librerie come sarcofagi, usare topi come unità monetarie, percorrere joyceianamente (ottima osservazione, Fulvia!) un'intera città per sistemare un capriccio insignificante - la banalità del male finanziario... - ma, dentro, siamo morti. Siamo tutti prostate asimmetriche. Non abbiamo capito il mondo, il mondo ora non può più tentare di farsi capire da noi, nemmeno per televisione. E l'inversione della tendenza passa, necessariamente, attraverso la claustrofobica catarsi di un loculo fonoassorbente, un'impossibile limousine in cui scorre tutta l'umanità, imperturbabile ad un universo da cui è stata irrimediabilmente espulsa. Quello finale, allora, non è un homo homini lupus: è l'uomo stesso che, volontariamente, esce di scena. Credo che non mi basteranno dieci visioni per cogliere pienamente il senso di questo capolavoro. Nel mentre, voto, ringrazio Cronenberg e ringrazio voi per le tre differenti, bellissime chiavi di lettura.

alejo90 (ha votato 8 questo film) alle 17:52 del primo giugno 2012 ha scritto:

grazie a te dell'interessantissimo intervento. Per elaborare un film del genere più punti di vista si ascoltano meglio è, anche perché un film che fa da discutere è già di per sé un film importante.

hayleystark alle 19:04 del primo giugno 2012 ha scritto:

Grazie a te, Marco! Con il tuo commento si apre la possibilità di una tetralogia critica

Peasyfloyd, autore, (ha votato 7 questo film) alle 20:41 del 27 ottobre 2012 ha scritto:

film capolavoro. Una metafora geniale del capitalismo finanziario (e non solo finanziario). Per molti versi sembra quasi di assistere ad una nuova Commedia dantesca, con la progressiva discesa negli inferi verso il termine del mondo. Sublime davvero