INLAND EMPIRE - L'Impero Della Mente regia di David Lynch
GrottescoUn’attrice viene scelta per interpretare un film che è il remake di un altro nel quale i due protagonisti erano stati assassinati. Quando lo scopre la sua mente inizia ad avere degli incubi, non distinguendo più la realtà dalla fantasia.
Dura quasi tre ore. Diretto da David Lynch ed intepretato e co-prodotto dalla sua musa di sempre dai tempi di Velluto blu, cioè Laura Dern, è un film che quando era stato presentato al Festival di Venezia aveva sconcertato tutti. Francamente e nonostante ciò, è difficile non rimanere disorientati davanti ad un’opera così inconsueta, già nella prima parte del titolo, INLAND EMPIRE, in maiuscolo. Il sottotitolo invece è in minuscolo ed è L’impero della mente.
Ed in effetti di fronte ad un’opera come questa, alla fine non è facile rispondere alla domanda se siamo davanti ad un genio ed uno di quei film che poi verranno discussi, studiati e rivalutati nel corso degli anni a venire, oppure se Lynch l’ha girato sotto effetto di qualche droga, alcool o semplicemente per prenderci tutti per i fondelli.
Di certo si tratta di un’opera che esce da tutti gli schemi e canoni del cinema come siamo abituati a considerare. Non c’è una trama, se non illusoriamente in un inquietante inizio, che sembra indeciso se indirizzare poi il film verso un giallo, un thriller o un horror, quasi perfetto nella tensione e nell’aurea di mistero che costruisce nella prima mezzora. Dopodichè, come se uscisse dai binari della narrazione, deraglia volutamente in una sorta di scatola cinese, a più livelli, incastrati uno dentro l’altro, nei quali si sprecano gli echi, più o meno lontani, a Bergman, Resnais, Kubrick ma senza riconoscersi apertamente in nessuno di loro.
Credo che si possa definire l’antifilm per eccellenza, perchè ad un certo punto si trasforma davvero in un viaggio attraverso la mente, in una sorta di incubo nel quale realtà e fantasia perdono ogni confine e nulla ha più senso. Sembra un film girato da chi ogni giorno andava sul set ed improvvisava qualcosa andando a ruota libera, senza porsi il problema di cosa era avvenuto prima e di cosa sarebbe potuto accadere poi. Un’esaltazione di free cinema in formato digitale, che erutta una colata lavica di immagini, sensazioni, ossessioni, partenze, ritorni, che si alternano senza logica, nè alcuna consecutio temporis.
Si resta decisamente senza parole, perchè se è vero che non si capisce niente e non ci si prova nemmeno a cercare di interpretare una possibile logica e significato in quello che si sta assistendo, allo stesso tempo si resta come ammaliati da un caleidoscopio di immagini, inquadrature, distorsioni, sfocature, primi piani ed una musica ossessiva che, tutte insieme, shakerate in un cocktail di stravolgente fantasia, mettono in risalto il talento innegabile dell’autore, anche se poi si finisce per chiedersi… a che pro?
Davvero ostico arrivare alla fine, una volta inteso che da questo film la gran parte degli spettatori comuni sono destinati ad uscirne solo con le ossa rotte, la bocca aperta ed una gran confusione in testa. Quando si chiude il cerchio e qualcosina si riesce anche a comprendere, ci si scuote, come capita dopo un sogno, per meglio dire un’ossessione, ad occhi aperti: uno di quei sogni o incubi che mentre si vivono da addormentati sembrano avere una logica, per quanto assurda ed al risveglio invece, oltre a dire: meno male che non era tutto vero, si rivelano in tutto il loro paradosso. Ecco, INLAND EMPIRE è proprio questo: qualcosa che con il cinema come siamo abituati a considerarlo c’entra poco, diciamolo, essendo più vicino alla sperimentazione, ma che durante la visione seduce, cattura ed incatena comunque lo spettatore più resistente e caparbio, pur ponendolo davanti ad uno sforzo non comune per cercare di dargli una qualche interpretazione. Uno sforzo vano, perchè è impossibile da risolvere nella logica comunemente detta.
Se un premio ci può essere alla fine, questo è rappresentato da uno spettacolo unico nel suo genere, con numerose sequenze da antologia ed un uso delle luci che assomiglia a quello dei concerti, quando attraverso l’alternanza dei chiaro-scuri, delle ombre e dei riflessi, si cerca di dare maggiore risalto alle note musicali. Anche in questo il film di Lynch è unico perchè la musica è spesso costituita da note singole, martellanti ed ossessive, oltrechè da rumori di vario tipo che accrescono il disagio dello spettatore generando ansia.
Laura Dern in questo caso è bravissima: interpreta lo stesso personaggio in alcune modalità nettamente differenti fra di loro, come se fossero più persone che si esprimono su tonalità diverse e contrapposte. Si vede che ha creduto in quest’opera che ha co-prodotto, d’altronde.
Nelle note di coda appare persino il nome di Nastassja Kinski: francamente difficile da riconoscere quando si resta immersi nel ‘frullatore’ messo in funzione da Lynch che riuscirebbe a far confondere un coniglio per un orso. A proposito, ci sono persino delle figure enigmatiche con la testa di coniglio che si esibiscono in una specie di teatro nel quale la gente ride quando i dialoghi non significano nulla: appunto, come il resto.
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