T Trailer

R Recensione

7/10

Cogan. Killing Them Softly regia di ANDREW DOMINIK

Thriller
recensione di Guido Giovannetti & Alberto Longo

Tre uomini mettono su un piano per rapinare una partita di poker. Hanno fatto in modo che la colpa venga scaricata sull’organizzatore, che tempo addietro aveva già fatto la furbata di farsi rapinare per poi spartire il bottino: sperano in questo modo di farla franca. Ma uno dei tre si lascerà scappare qualche parola di troppo, e la mafia metterà sulle loro tracce il freddo ed implacabile Jackie Cogan, killer ineludibile.

Guido Giovannetti:

Era da tanto che non vedevo un film così, un film apparentemente vuoto ma in realtà fatto di vuoto: forse era dai tempi di Somewhere, anche se siamo ben lungi da quel risultato (per informazione, sappiate che sono uno dei pochissimi a ritenerlo il migliore della Coppola), quindi si parla di ben due anni or sono. Ora Cogan, come già detto, è indubbiamente meno compatto ed intenso del Leone D’Oro 2010, eppure presenta una simile intenzione narrativa: è un film che sembra non dire niente, e quando dice non brilla certo per originalità, ma…

Partiamo da un presupposto: Cogan è un film che ha indubbiamente dei debiti verso il primissimo Tarantino, quello de Le Iene, pieno di logorroici dialoghi che portano spesso al nulla, ma che “riempiono” il tempo e lo spazio filmici (si veda, in particolare, il pestaggio di Markie, durante il quale i due assalitori continueranno a parlare ininterrottamente, che ricorda la tortura perpetrata da Mr.Blonde al povero poliziotto) Qua i momenti di dialogo inconcludente sono alternati a lunghissime, lente sequenze (supportate da un uso artistico della slow-mo), che hanno un forte potere ammiccante (per dirla in altri termini, sembrano dirti quasi “Ehi, ma come sarà figo questo film?”): in tal senso è esemplare il dialogo fra i due rapinatori, dove il punto di vista è quello del tizio fatto, che vede tutto rallentato e coglie una frase ogni tre.

Eppure il dinamismo della pellicola tarantiniana è qui assente, e prevalgono atmosfere lente, grigie, quasi paralizzate. Troppo: fino a circa dieci minuti dalla fine si rimane abbastanza basiti dalla sensazione di noia che Cogan finisce immancabilmente per trasmetterci. Però nel finale è proprio Cogan/Pitt a darci una chiave di lettura per l’intero film, con la frase "L’America non è una nazione, è solo affari. E adesso pagami!". Non è certo una risoluzione originale, né tantomeno basta a far rivalutare tutta la precedente “vuotezza”, ma al contempo ci regala quello che sembrava mancare all’intera vicenda: un senso.

Cogan è un killer impersonale, che non si lascia coinvolgere, non permette ai sentimenti di interferire con il suo “mestiere”. La novità, forse, è che però il nostro protagonista non si sente appagato da questo, non si compiace della sua professionalità, ma anzi si lamenta dell’impossibilità di un mondo in cui non contino solo gli affari  e i quattrini, e in cui ci sia posto anche per fratellanza, compassione, amore (soprattutto in quest’ultimo senso acquista una ragione d’essere il personaggio di Mickey, killer divorziato e puttaniere, in preda però ad una depressione che potrebbe derivare proprio dall’impossibilità di sentimento). È una critica politico/sociale, quella che in ultima analisi vuole fare Dominik con il suo 3° lungometraggio, critica che emerge confusa e frammentaria dalle “pillole” prese dai discorsi di Bush e Obama, e che viene poi servita in maniera diretta e precisa allo spettatore nell’intensa conclusione: e non ci dispiace, per una volta, avere una chiave di lettura ben dichiarata.

Registicamente freddo ed impeccabile, con un buon cast di attori (dove nessuno però emerge, dal momento che la forza della pellicola è nelle atmosfere, non nella vicenda o nei characters) ed un certo gusto nella selezione delle tracce per la colonna sonora (qualche esempio: oltre alla main-track, The Man Comes Around di Johnny Cash, è azzeccata la versione strumentale di Heroin dei Velvet Underground all’inizio del dialogo fra i rapinatori), Cogan è un film che sicuramente spiazza le aspettative del pubblico (io, onestamente, pensavo di trovarmi di fronte ad un noir classico) e probabilmente lo annoia un po’, ma che dà da pensare e su cui c’è da pensare. Tutto sta nel seguirlo fino alla fine, e lasciarsi catturare da quell’aria di “decadenza” che permea l’intera pellicola.

---------------------------------------------------------------------------------------------

Alberto Longo:

Tutto qui. Sì. E pensare di avere di fronte l'ennesimo "gangster-movie" non è poi così sbagliato. Ma non è neanche la giusta definizione di genere. La nuova opera (tratta dal romanzo di George V.Higgins) di Andrew Dominik (L'Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford; 2007) è un concentrato di concisione e cinismo, in cui i personaggi sono marionette dei veri protagonisti del film: i soldi. Tutti li cercano, tutti li vogliono, disperatamente. E nel periodo di crisi in cui il film è calato, l'ossessione da parte dei rapinatori, rapinati e risolutori diviene ancora più spietata. Sì, "spietata": il cinismo, mano a mano che il film progredisce, alza il tiro e i pochissimi valori iniziali vengono letteralmente fatti a pezzi. Perchè non solo l'America, ma tutto il mondo, ora, non li vuole. Vogliono i loro soldi e metteranno mano ai loro sicari per averli. Cosa dire allora di un film così nero? Che piace, sebbene la morale sia davvero priva di speranza. Che coinvolge, vuoi per una regia sa mescolare i generi del gangster movie, la commedia nera, il dramma. Oppure per una sceneggiatura capace di sottolinearli adeguatamente. I dialoghi variano dalle rapide botta e risposta, ai monologhi sino ai silenzi, spesso decisamente più eloquenti, anche grazie a un ottimo montaggio e ad una buona fotografia. La caratteristica di questi due elementi è la loro "schizofrenia": possono passare da stacchi o controcampi rapidi, crudi e in successione, fino ai "long takes", indifferentemente che siano momenti concitati o più distesi. La fotografia enfatizza una storia malsana in una terra malata con colori freddi, spesso accecanti, come dal punto di vista di un tossico o di un moribondo in un deserto, senza possibilità di nascondersi o di salvarsi. Potremmo dire che la pallottola colpisce il suo bersaglio "con dolcezza"? Sufficientemente da farlo riposare in pace, sì. Ma la parcella ha un centesimo di troppo (si sa, in tempi di crisi...). La sceneggiatura ha dei cali ritmici nella parte centrale del film e quell'ossessione per i pezzetti di carta color verde velluto spento è un'arma a doppio taglio per l'incombente pericolo di autoreferenza. Ottime le interpretazioni degli attori: Brad Pitt (L'Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Redford, di Andrew Dominik, 2007; Moneyball-L'Arte di Vincere, di Bennett Miller, 2011; Tree of Life di Terrence malick, 2011; Bastardi Senza Gloria di Quentin Tarantino, 2011) di si trova ancora a suo agio nel ruolo del sicario Jackie, che alla fine si dimostra della stessa fattura delle sue vittime. Sulla stessa scia anche James Gandolfini: (Nel Paese delle Creature Selvagge di Spike Jonze, 2009; Pelham 123-Ostaggi in Metropolitana di Tony Scott, 2009) dopo il successo della serie TV  Sopranos, la parte del sicario gli calza a pennello e convince. Il duo di sbandati interpretati da Scoot McNairy (nelle serie TV di Six Feet Under; Bones; My Name is Earl) Ben Mendelsohn (Animal Kingdom di David Micho, 2010) convince appieno: la rapina è un tripudio di tensione senza una sola pallottola puntata; la sequenza per rappresentare l'estasi di Russell è un ottimo gioco tra montaggio ed interpretazione da parte di Mendelsohn. Ray Liotta (Quei Bravi ragazzi di Martin Scorsese, 1990; Cop Land di James Mangold, 1997) sempre pregevole in questo genere qui nel ruolo di Markie Trattman. La colonna sonora non c'è. O meglio, vengono utilizzati i brani di svariati artisti come Kitty Lester, Marc Streitenfeld e i The Velvet Underground con "Heroin". Nonostante la mancanza di una colonna sonora originale, sono un'ottima scelta per l'atmosfera. In breve... Andrew Dominik racconta di due sbandati con l'ossessione di soldi; rubano a gente altrettanto ossessionata e vengono inseguiti da un killer cinico e inarrestabile. Essì, ossessionato pure lui dai dollari. Ottima regia, buona sceneggiatura nonostante qualche calo nella parte centrale. Corre il rischio di autoreferenza nell'esporre il circolo vizioso di gente disperata e dissanguata da una crisi economica. Montaggio e fotografia schizofreniche ed efficaci. Ottime le interpretazioni dei protagonisti: mafiosi (Liotta), carnefici (Pitt & Gandolfini), vittime (McNairy, Mendelsohn). Americani senza più il loro bel sogno, masochisti nell'ascoltare i discorsi dell'uscente Bush e del nuovo arrivato Obama di misure e soluzioni (estratti audio e video reali, presenti ossessivamente nel film). E tu, spettatore? Jackie può ucciderti con dolcezza. Basta pagare.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 5 voti.
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
alexmn 7/10

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Peasyfloyd, autore, (ha votato 7 questo film) alle 12:54 del 12 giugno 2013 ha scritto:

è un film molto più politico di quanto non sembri. Giovannetti ha colto l'aspetto ma a mio avviso non gli ha dato abbastanza spazio. Le tv che riportano in continuazione discorsi di politici americani non sono testimonianza di una "critica confusa e frammentaria" bensì l'evidenza che negli USA c'è una fascia di personaggi che ormai vede e sente scorrere parole, discorsi, personaggi, con la massima indifferenza, nella consapevolezza che si tratta di grandi scenografie vuote di contenuto. La politica è quindi un continuo ronzio di fondo incapace di dare una risposta ai problemi della gente. Non per niente l'unica volta che ci si sofferma ad ascoltare questi discorsi (nel finale) questi sono talmente scontati da essere anticipati da Pitt quasi con rabbia oltre che con sbeffeggio. Se c'è tale consapevolezza nell'impossibilità di trovare risposte nella politica si cade nella legge della giungla, in cui conta solo l'individuo e la sua necessità di fare i propri interessi a scapito degli altri, in qualsiasi maniera. Naturalmente quindi quello che conta sono i soldi. Poco altro...

C'è qui una critica profonda alla democrazia americana e al suo farlocco bipolarismo.